«A tre anni dalla brutale aggressione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, vanno ribadite vicinanza e solidarietà alla coraggiosa resistenza ucraina a difesa della propria indipendenza e della libertà delle sue scelte nazionali». Tocca ancora una volta al presidente della Repubblica, nell’anniversario dell’invasione dell’Ucraina, scolpire la posizione dell’Italia.

In un messaggio che lo collega idealmente con il presidente Volodymyr Zelensky e con i capi di governo che hanno voluto essere presenti alle commemorazioni di Kiev, Sergio Mattarella mette tutte le parole-chiave di chi non lascia spazio a dubbi: parla della «violazione delle norme di convivenza internazionale», della rottura degli «impegni assunti nel 1994 tra le due parti», della «severa condanna» e della «pace giusta», cioè garantita da «efficaci misure di sicurezza».

L’Italia low profile

È quello che pensa anche Giorgia Meloni e del resto, attenuando i termini, è quello che ha detto al raduno delle destre di Washington sabato scorso. Ma lei a Kiev non è volata – alla conferenza stampa l’Italia non c’era, in videocollegamento c’era Antonio Tajani ed era presente il nostro ambasciatore – e dunque non era con Ursula von der Leyen, António Costa e tredici leader europei.

Non ha in programma di andare alla Casa Bianca, dove invece è arrivato il francese Emmanuel Macron e giovedì arriverà l’inglese Keir Starmer. I due hanno concordato una richiesta a Trump: farlo rinunciare al tavolo bilaterale Usa-Russia sulla pace di Kiev, chiedere che l’Ucraina e l’Europa siano ammessi.

«L’Europa darà garanzie di sicurezza all’Ucraina», ha risposto il presidente Usa.Ma ha risposto a Macron. Non alla presidente, la cui diplomazia asserita è così riservata che non emerge. È vero che sabato si è schierata con Kiev davanti all’internazionale sovranista, ma per compensare la scelta, coraggiosa in un ecosistema trumpiano, si è sperticata in lodi al presidente Usa e all’inascoltabile suo vice J.D. Vance. Una posizione che i sostenitori definiscono «prudenza» e i detrattori «reticenza e cerchiobottismo».

Comunque una posizione difficile, poco profilata, e che non sarà aiutata dalla prospettiva di una coalizione Cdu-Spd in Germania. La premier è tra troppi fuochi. Vance, Musk e Trump avevano scommesso su un maggiore consenso alla destra estrema di Afd. Il cancellierato del democristiano Merz invece rafforzerà il ruolo tedesco, e se l’Europa ha una speranza di tornare «great again» non sarà grazie ai nazionalisti e ai filonazisti, ma ai fondatori della Ue che provano a rientrare in partita.

Per la premier il sogno di un ruolo da «pontiera» fra le due sponde dell’Atlantico sbiadisce sempre più: al primo risveglio del voto, Trump si è trasformato in un incubo; al secondo, la Germania è tornata nelle mani della “Grosse Koalition”. Da Fdi sono partiti complimenti a Afd, e la premier ha fatto passare un giorno prima di complimentarsi con Merz, auspicare di «intensificare le già eccellenti relazioni bilaterali» e dichiararsi pronta a lavorare «in stretto contatto» su sicurezza, competitività europea e contrasto all’immigrazione irregolare.

Pattinare a vista

Per ora a Meloni pattina. Pattina a vista. Mentre i media del mondo occidentale rilanciavano le immagini dei leader europei schierati a Kiev, e quelle di Macron a Washington, lei piazzava le foto del Business Forum con lo sceicco bin Zayed Al Nahyan ed esultava per la firma di «oltre 40 intese» per 40 miliardi di investimenti in Italia, «una giornata storica». Vero, qui da noi.

Ma intanto nel resto del globo terracqueo passano i treni della storia. E lei non sale. Si è rassegnata all’ultimo a collegarsi alla riunione del G7 voluta dal canadese Justin Trudeau (che era a Kiev). La Commissione europea, il parlamento e il Consiglio hanno dichiarato congiuntamente che resteranno accanto a Kiev.

All’assemblea Onu, gli Usa hanno combattuto per imporre una risoluzione con una versione della pace che non contemplasse «l’impegno alla sovranità, indipendenza, unità e integrità territoriale dell’Ucraina». È passato il testo pro Ucraina, l’Italia l’ha votato, gli Usa no. Ma di fatto in ciascuno dei luoghi dove infuriava la battaglia politica e diplomatica, il nostro paese non è riuscito a ricavarsi un ruolo, oppure – a Kiev – vi ha rinunciato.

In questi giorni il governo sembra sospeso, sul fronte internazionale e quello interno. Martedì 25 febbraio alla Camera si discute la sfiducia al ministro Carlo Nordio, e poi si vota quella alla ministra Daniela Santanchè. La maggioranza è precettata, ma la difesa si annuncia svogliata.

Le opposizioni danno battaglia sul caro bollette, l’esecutivo si gira dall’altra parte. Il caso dello (ancora presunto) spionaggio di stato ai danni di alcuni cittadini italiani si allarga: oltre a un giornalista e a un cooperante, si scopre che era spiato anche don Mattia Ferrari, un prete.

La premier non vuole “abbassarsi” a dire niente su queste vicende, e anche i suoi balbettano e confondono le acque. Il che si aggiunge alle ordinarie gaffe dei ministri. L’ultima è dell’ex cognato Francesco Lollobrigida, titolare dell’Agricoltura, secondo il quale, altro che alcol, si muore se si beve troppa acqua. Metafora involontaria di un governo che non rischia di affondare, certo, ma da settimane galleggia.

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