Il senatore dem: «Sarà un autunno complicato, l’opposizione ha le sue proposte». «Nella Ue serve un Industrial Act per sostenere il sistema manifatturiero europeo»
Senatore Antonio Misiani (responsabile economico Pd, ndr), con la quinta rata del Pnnr, «siamo i primi in Europa», come dice il governo?
La verità è che siamo indietro. Il ministro Fitto lo ha detto in parlamento: abbiamo speso 52 miliardi sui 194 complessivi. E mancano meno di due anni alla scadenza. Prendiamo la sanità: il Pnrr mette a disposizione 15 miliardi per ospedali, case di comunità, telemedicina, macchinari. Ma la spesa è ferma al 12 per cento. Con due danni per la sanità pubblica. Da una parte c’è un disperato bisogno di soldi per la spesa corrente, che il governo non stanzia. Dall’altra, non si riesce ad utilizzare le risorse Pnrr disponibili per gli investimenti, che rischiamo di dover restituire.
L’ipotesi di Fitto commissario europeo migliora o peggiora la prospettiva?
Non la cambia. Speriamo che all’Italia tocchi una delega significativa. Ma la disastrosa campagna d’Europa di Meloni ha ridotto il peso del nostro paese nei tavoli che contano.
La visita in Cina della premier ha un significato “economico”?
A me sembra tutta fuffa. Certo, fa effetto vedere la premier che era da poco uscita dalla Nuova via della Seta recarsi a Pechino a omaggiare XI Jinping. Ma non è la prima delle capriole diplomatiche di Meloni. E non sarà l’ultima: dopo aver ricevuto il bacetto di Biden, ora dice che preferisce Trump ai democratici americani.
Dopo due anni di governo di destra, qual è la politica industriale italiana?
Il governo Meloni non ha una politica industriale. Va avanti a spizzichi e bocconi. Il piano di privatizzazioni spinto da Giorgetti e subìto da Urso sta portando alla liquidazione di ciò che resta della presenza dello Stato nell’economia: Ita ai tedeschi di Lufthansa, si cedono quote di Mps e Poste senza una logica industriale, la rete Tim venduta ad un fondo infrastrutturale americano e tra poco potrebbe essere il turno delle Ferrovie. L’Italia è diventata un territorio di caccia, con tanti saluti al sovranismo de noantri della premier. La riforma fiscale di Giorgetti e Leo è una mazzata per le imprese: uno zuccherino, la deduzione maggiorata Ires per le assunzioni, peraltro valida un solo anno, e l’abolizione permanente dell’Ace, un’agevolazione che aiutava le impresa a patrimonializzarsi. Risultato: tre miliardi di tasse in più.
L’autonomia differenziata fa bene alla politica industriale?
È il contrario esatto. Le imprese italiane, a partire da quelle del Nord, hanno solo da perdere. Che competitività può avere un paese con venti leggi regionali su commercio estero, reti energetiche, porti e aeroporti? Un ginepraio burocratico contro gli imprenditori, in primis quelli che lavorano in più regioni.
Il governo dice di essere al fianco delle imprese.
In realtà fanno solo proclami: annunciano l’obiettivo di produrre in Italia un milione di veicoli, e poi litigano con Stellantis che nel primo semestre del 2024 ha ridotto del 25 per cento la produzione. Annunciano nove mesi fa 13 miliardi per il Piano Transizione 5.0, ma il decreto attuativo è stato firmato da Urso solo venerdì scorso, praticamente alla vigilia di Ferragosto. Annunciano il credito d’imposta per gli investimenti nella Zes unica promettendo una detassazione fino al 60 per cento, salvo accorgersi che le domande sono superiori alle risorse e quindi bisogna scendere al 17,6 per cento, e se la prendono con il direttore dell’Agenzia delle entrate Ruffini, che però si è limitato ad applicare la legge. È una politica industriale? No.
Su questi temi c’è un campo largo possibile all’opposizione?
Credo di sì. Il punto di partenza è l’Europa. La sfida è con giganti come Usa, Cina e India. Se andiamo in ordine sparso, è una partita persa. Se lavoriamo insieme, possiamo vincerla. La scorsa legislatura è stata quella del Green Deal. La prossima deve essere quella di un Industrial Act per sostenere il sistema manifatturiero europeo.
Su quali punti concreti potreste fare battaglie comuni?
Riorganizzare gli incentivi pubblici condizionandoli a obiettivi ambientali e sociali. Aiutare aziende e lavoratori ad attrezzarsi alla doppia transizione ecologica e digitale. Migliorare il ruolo dello Stato a sostegno del sistema produttivo. Servono almeno dieci miliardi l’anno per i prossimi dieci anni. Le risorse pubbliche, le possiamo trovare riconvertendo i sussidi ambientalmente dannosi e razionalizzando la pletora di incentivi per le imprese. Ma la vera sfida è mobilitare verso l’economia reale il risparmio privato.
Che autunno sarà quello del 2024?
Siamo preoccupati. Sul fisco, la riforma del governo ha peggiorato l’iniquità e l’inefficienza del sistema. Stendiamo un velo pietoso sull’evasione: la svendita di fine stagione sul concordato preventivo biennale dimostra le reali intenzioni del governo. Sulla spesa, Giorgetti l’ha “controllata” cancellando il reddito di cittadinanza, tagliando l’indicizzazione delle pensioni, stoppando la decontribuzione per il Sud, lasciando a secco la sanità. E quest’anno non potranno nemmeno usare il deficit come in passato. Figuriamoci che cosa possiamo aspettarci da un governo come questo.
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