L’autonomia differenziata sta spaccando la destra. Ma anche a sinistra può segnare una svolta politica. Effetti collaterali della piattaforma digitale, la nuova alleanza può passare da un sì o un no degli elettori
La raccolta di firme sul quesito contro l’autonomia differenziata produce, giorno dopo giorno, smottamenti politici. L’ultimo venerdì scorso in Basilicata, regione governata dal forzista dubitabondo Vito Bardi, il Consiglio regionale ha evitato di misura l’autogol di aderire alla richiesta di referendum presentata dalle opposizioni.
Sono mancati i voti dei due esponenti di Azione, e quello del renziano Mario Polese che, pur di sfuggire all’appuntamento, si era fatto inviare in missione ad Ancona a un’iniziativa sull’ambiente, di cui si era meritevolmente ma improvvisamente interessato.
Ma poi la maggioranza di centrodestra non è riuscita ad approvare una sua mozione a favore della legge Calderoli: il che la dice comunque lunga sulla stato confusionale degli alleati della Lega.
E non ci sono solo le fibrillazioni nella maggioranza. C’è un possibile salto quantico anche nelle opposizioni. Perché l’attuale vento in poppa dei referendari ha un’indubbia nuova alleata, la piattaforma digitale che ha consentito la raccolta di firme in formato digitale.
Una conquista dopo una battaglia di anni, grazie alla perseveranza di chi ha il referendum nel Dna: una galassia di associazioni di cultura radicale, guidata da +Europa, e dall’associazione Luca Coscioni, dall’ex segretario di Radicali italiani Mario Staderini e tanti altri. «La piattaforma nasce da un emendamento al decreto Semplificazioni approvato nel luglio 2021. Il governo si assumeva il compito di realizzarla.
L’obiettivo era superare gli ostacoli nel promuovere i referendum: obblighi burocratici, di autentica delle firme, e costi, che ne rendevano la promozione, di fatto, una possibilità riservata solo a grandi partiti o a grandi organizzazioni», racconta Riccardo Magi, segretario di +Europa. La piattaforma doveva entrare in vigore entro il gennaio 2022. Invece è arrivata meno di un mese fa, con due anni e mezzo di ritardo, alla fine di un martellamento di interrogazioni, question time, sit-in davanti a palazzo Chigi, dove per mesi sono stati convocati i «Friday for democracy».
Al loro esordio, le firme digitali sono state una valanga e hanno permesso di superare in pochi giorni la soglia delle 500mila richieste per il quesito. «È uno strumento di semplificazione, di rimozione degli ostacoli, non assicura il successo di iniziativa referendaria. Ma è una prova della voglia di partecipazione democratica che c’è nel paese».
Rivoluzione, come la staffa
Le firme digitali, entrate in corsa ma poderosamente fra i banchetti reali, rischiano di essere un fatto storico. Una rivoluzione nella politica, una svolta epocale, come l’introduzione della staffa per la cavalleria. Ora, in pratica, attivisti e organizzazioni civiche hanno a disposizione uno strumento che fin qui necessitava di particolari congiunture politiche e spinte sociali, di strutture capillari e capacità finanziaria.
Sempre Magi: «Oggi abbiamo recuperato una nuova vitalità per lo strumento referendario. Ovviamente bisogna cogliere il tema giusto. Storicamente è stato occasione di divisione democratica del paese, ma il cui esito finale spesso ha determinato un passo in avanti, una conquista di diritti». Siamo dunque di fronte a una «rinascita del referendum» che arriva «al momento giusto: un parlamento da tempo incapace di scegliere su molte questioni, prima con le maggioranze progressiste, oggi con una destra che chiude gli spazi sui temi dei diritti».
Campo largo referendario
Può diventare persino la chiave per riorganizzare la coalizione di centrosinistra: «Mi chiedono spesso se il campo è largo e quanto deve esserlo. Se riusciamo a farlo vivere come un campo referendario, attraverso la scelta che i quesiti impongono, diventa un modo di definirsi politicamente. Anche anche di fronte ai cittadini: con un sì e un no, si possono chiarire questioni che dentro le dinamiche politicistiche sono rimaste opache per anni».
+Europa, con molte associazioni, sta già lavorando a temi spartiacque per il centrosinistra: lo ius soli, chiedendo di abrogare una parte della legge sulla cittadinanza, o l’eliminazione del carcere per la cannabis – un terzo dei detenuti italiani lo è per violazione di un articolo del Testo unico sugli stupefacenti – o ancora l’eliminazione delle discriminazioni delle adozioni per le coppie omogenitoriali, intervenendo su una parte della legge Cirinnà.
Più firme meno quorum
Insomma, siamo di fronte a una svolta tecnologica che determina una rivoluzione, o che forza l’uso dello strumento costituzionale? No, secondo Stefano Ceccanti, costituzionalista e docente di diritto pubblico comparato all’Università la Sapienza di Roma.
«Di per sé la piattaforma non è decisiva, anche se è un’importante risorsa pubblica. La storia dei referendum in questo paese, dall’aborto al divorzio al nucleare, lo dimostra: se un tema è sentito nel paese, le firme vengono raccolte comunque. Anche nel caso in cui sia sentito da “minoranze intense”. Se non è sentito, puoi raccoglierle, ma poi non porti il paese a votare. Piuttosto proprio per questo, e proprio dopo l’introduzione delle firme digitali, servirebbe una riforma costituzionale: uno “scambio” fra più firme contro meno quorum. Faccio un esempio. 800mila firme e non più 500mila, ma esito positivo con un quorum mobile: metà più uno di chi ha votato alle politiche. Magari introducendo il vaglio di costituzionalità al raggiungimento delle prime 100mila firme, così c’è un minimo di rappresentatività senza sprecare energie e ingenerare delusioni».
C’è un rischio più di fondo: una democrazia «referendaria» non rischia di lisciare il pelo ai populismo, esautorare il parlamento e dunque la rappresentanza democratica? No, secondo Magi: «Il referendum resta quello previsto dalla Costituzione, che vede questo strumento come il più forte tra quelli dell’iniziativa popolare, come un innesto sul ramo della democrazia parlamentare. Un sistema democratico vero, e un sistema dei partiti che funziona, non ha alcun motivo di temere dall’iniziativa popolare, la vive come uno stimolo. Se no, c’è qualcosa che non funziona nella vita ordinaria delle istituzioni».
Nessuna deriva populista, dunque, «anzi il rischio di deriva plebiscitaria e autoritaria oggi è piuttosto nel parlamento e nei partiti, non certo dell’uso distorto del referendum.
È il momento di fare opposizione con intransigenza nel parlamento e fuori utilizzando tutti gli strumenti. E l’opposizione più efficace è anche quella che sa indicare le riforme che vuole fare, e così ricostruire un rapporto di credibilità e fiducia con i cittadini».
La politica e il terremoto
Frena gli entusiasmi il costituzionalista Gaetano Azzariti, docente di diritto costituzionale e fra i più autorevoli giuristi del Comitato per il no all’autonomia differenziata: «I referendum sono preziosi strumenti di partecipazione, che vengono utilizzati quando sono in crisi o sono ostruiti gli ordinari canali della rappresentanza nel Parlamento. Ma non possono sostituirsi ai canali ordinari».
E la ragione è di forma oltreché di sostanza: «Perché sono strumenti abrogativi, regolati dall’art.75 della Carta, o oppositivi, regolati dall’art. 138. Ma non possono definire un indirizzo politico. Insomma evitano il peggio – la riforma Renzi, la legge Calderoli – ma non possono costruire il meglio, cioè attuare la Costituzione, definire un regionalismo solidale al posto di quello competitivo».
Il vero problema è la famosa crisi della rappresentanza, e il referendum, secondo Azzariti, non sfugge: «È vero che il referendum promuove o favorisce un cambiamento, per esempio unisce i diversi e persino può creare un “campo largo” ma non può sostituire la politica».
Eppure un ingranaggio, oggi, con il quesito sull’autonomia differenziata, potrebbe muoversi: «Se si dovesse vincere il referendum, ovvero passare il vaglio della Consulta e poi portare a votare oltre la metà del corpo elettorale, sarebbe in questo caso in effetti un positivo terremoto. Da cui ripartire, in una situazione meno pericolosa di ora. In fondo abrogare è anche ordinare in altro modo, come spiegava Vezio Crisafulli, maestro di diritto costituzionale. Ma nulla è definitivo e la montagna da scalare è irta».
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