-
Le spie italiane dell’Aise hanno creato nel paese una rete di informatori seconda solo a quella degli Stati Uniti.
-
Con l’operazione “Aquila Omnia” hanno esfiltrato suore e disabili. L’avvertimento a luglio: «I Talebani stanno già arrivando».
-
Gli attentati sventati. I rapporti con il regime e l’intelligence pakistana. Ora l’obiettivo primario è la lotta ai terroristi.
Per capire come hanno lavorato i servizi segreti italiani in Afghanistan, e come sono cambiate le nuove regole d’ingaggio dei nostri uomini nel teatro bellico precipitato in una crisi inimmaginabile fino a poche settimane fa, si devono compulsare in primis l’intelligence e Palazzo Chigi, oltre agli uffici della Farnesina e alle stanze della Difesa preposte al dossier. Informazioni utili, però, possono arrivare anche dalle Ong sul campo, e persino dal Vaticano. In particolare, dagli uomini dell’arcivescovo Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli stati della Santa sede. Il fedelissimo di papa Francesco, infatti, ripete da giorni ai suoi che senza l’aiuto degli italiani e delle spie dell’Aise, l’agenzia di sicurezza esterna guidata da Giovanni Caravelli, molte “esfiltrazioni” sarebbero state impossibili.
Come il salvataggio di padre Giovanni Scalese, unico prete cattolico rimasto a Kabul e responsabile della “missio sui iuris” del Vaticano. E soprattutto come l’evacuazione delle quattro missionarie della carità di Madre Teresa di Calcutta e di 14 bambini disabili che accudivano.
L’operazione è finita sui telegiornali ma, risulta a Domani, è stata assai più complessa di quanto si immaginava: mentre la capitale era caduta in mano ai Talebani, i primi tentativi da parte della Croce rossa internazionale e della forze Usa di organizzare un trasporto del gruppo verso l’aeroporto (tutti i ragazzini sono in sedia a rotelle) sono falliti. Gallagher aveva anche provato a fare pressioni dirette sul dipartimento di Stato americano, senza successo.
È stato così l’Aise, d’accordo con il Dis di Elisabetta Belloni e con l’autorità delegata capeggiata da Franco Gabrielli, a dare l’ok al blitz, e a riuscire – insieme ai militari italiani - a portare il gruppo al gate dell’aeroporto assediato dalla folla, evitando la calca che si ammassava ai cancelli d’ingresso.
Il dramma dei collaboranti
Il lavoro dei servizi esteri negli ultimi due mesi non ha avuto tregua, nonostante in pochi ne conoscano i contorni. Molte, invece, le polemiche. A Washington la ritirata precipitosa delle forze alleate ha generato polemiche bipartisan non solo sulle scelte del presidente Joe Biden, ma anche sui presunti errori della Cia, incapace – a detta di alcuni columnist e di molti senatori repubblicani – di prevedere, attraverso analisi adeguate, la repentina dissoluzione dell’esercito e la vittoria lampo dei fanatici della sharia. Il processo decisionale, di fatto, non sarebbe stato adeguatamente supportato.
Anche in Italia qualcuno ha criticato la gestione della crisi da parte delle istituzioni. Se il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, è stato tacciato di inedia (prova regina dei suoi critici è la foto del grillino immortalato in spiaggia durante i giorni del caos), al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, e al capo di Stato maggiore, Enzo Vecciarelli, è toccato rispondere delle presunte lentezze nell’allestimento del ponte aereo necessario a salvare soldati e civili italiani. Qualcuno ha definito i nostri servizi segreti come dei desaparecidos, incapaci di ottenere ragguagli sul campo per operare strategie per pianificare una ritirata meno disordinata.
In realtà, Forte Braschi – come i servizi alleati inglesi, francesi e tedeschi – sui tempi di reazione poteva poco: risulta che i colleghi della Cia abbiano avvertito i nostri della decisione di Biden solo poche ore prima che venissero rese pubbliche dal presidente degli Stati Uniti. Fonti diplomatiche della Farnesina spiegano pure che gli agenti Aise avrebbero da luglio in poi lavorato pancia a terra, concentrandosi soprattutto su possibili attacchi ai nostri contingenti in partenza dalle basi di Herat e dalla capitale Kabul, e sul check capillare delle liste di uomini e donne afghane che hanno lavorato con lo stato italiano negli ultimi vent’anni da salvare.
«L’Aise insieme ai colleghi del controspionaggio dell’Aisi (il servizio interno diretto da Mario Parente, ndr) hanno verificato se nell’elenco dei cinquemila afghani che abbiamo evacuato ci fossero infiltrati di al Qaida, della rete terroristica Haqqani e dello Stato islamico», chiosano dal ministero di Di Maio. «Per la cronaca le liste sono risultate tutte “pulite”, ma l’antiterrorismo vigila costantemente».
Contemporaneamente, i nostri agenti si sono dedicati alla protezione dell’identità degli agenti sotto copertura (afghani di varie etnie, pashtun compresi) reclutati in questi due decenni. Sono poi stati impegnati nel mettere in sicurezza i “collaboranti” che rischiano di essere esposti a vendette dei guerriglieri talebani. Numeri non ufficiali parlano di circa tremila persone in contatto con i nostri servizi segreti e con i militari. In Afghanistan l’Aise ha in effetti steso una rete di informatori in quasi ogni provincia del paese. Un sistema di spionaggio che addetti ai lavori considerano inferiore solo a quello degli americani, pari a quello degli inglesi e superiore a quello vantato da Parigi. Un risultato considerato soddisfacente, viste le differenze di peso tra vari organismi: al netto del gigantismo dell’intelligence Usa, il Dgse (l’intelligence esterna francese) vanta complessivamente seimila agenti effettivi, contro i meno di duemila dell’Aise. L’imperativo a Forte Braschi è, da tempo, quello di fare le nozze con i fichi secchi.
Rapimenti
Durante la lunga operazione afghana i servizi italiani sono stati compulsati in continuazione. In occasione dei rapimenti, naturalmente: dai casi di Daniele Mastrogiacomo a quello di Clementina Cantoni, fino alla vicenda – conclusasi drammaticamente – del blogger Giovanni Lo Porto, ucciso involontariamente dal raid di un drone americano. Nel fallito tentativo di liberazione rimase ucciso anche un altro ostaggio dei jihadisti, l’americano Warren Weinstein. Fu grazie all’aiuto dell’Aise, scopriamo oggi, che la Cia riuscì a riportare il corpo negli Stati Uniti.
Nel day-by-day, però, obiettivo primario dell’agenzia di sicurezza esterna è stato quello di sventare attacchi contro il contingente italiano, i vari convogli degli alleati e le truppe afghane, falcidiati da ordigni esplosivi improvvisati piazzati ai lati delle strade. I famigerati “Ied” hanno fatto migliaia di morti (l’Italia ha perso in Afghanistan 53 soldati e contato 700 feriti), ma le informazioni riservate ottenute dell’Aise hanno sventato altre decine di attentati potenziali.
Ora quasi tutte le fonti sotto copertura sono rimaste nel paese mediorentale. Altri afghani più esposti che hanno lavorato con l’Italia hanno invece chiesto un visto per Roma, ma molti sono rimasti bloccati a Kabul con le loro famiglie. Temono adesso che il nuovo governo guidato dall’ala dura dei Talebani possa prenderli di mira. «Secondo una stima, si tratta di circa tremila persone» dice una qualificata fonte del Dis. «Tutti credono che i Talebani attueranno, quando gli occhi dell’opinione pubblica mondiale si staccheranno da Kabul, rastrellamenti e politiche repressive e revansciste contro quelli che vengono considerati “traditori”». Uno degli impegni prioritari dei nostri servizi e delle nostre istituzioni sarà dunque quello di tentare di portare in salvo coloro che rischiano la pelle, e che hanno davvero titolo per venire da noi. «Non vanno assolutamente abbandonati», chiude il dirigente del Dis. «È una questione non solo morale ed etica, ma anche di credibilità. È un problema enorme che hanno anche altri alleati: persino gli Usa non sono riusciti ad evacuare tutti i loro cooperanti».
I guerriglieri hanno ribadito pubblicamente che non intendono compiere rappresaglie, e che il nuovo governo varerà un’amnistia per gli ex funzionari statali che hanno collaborato con gli esecutivi appoggiati dalla Nato. Non ci sono prove, ad ora, di rastrellamenti a catena a Kabul, ma fonti qualificate spiegano a Domani che gli studenti coranici stanno già cercando casa per casa gli uomini delle forze speciali dell’ex presidente Ashraf Ghani, agenti e militari fino a tre mesi fa in prima linea nella caccia ai jihadisti.
La preoccupazione di ritorsioni violente è dunque fortissima. Ecco perché il comparto dell’intelligence, la Difesa e gli uffici del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese stanno studiando se, come e quando portare in Italia le famiglie afghane che non sono riusciti a salire sui C130 usati durante la missione “Aquila Omnia”, ufficialmente conclusa a fine agosto. Un’operazione che ha visto l’Aise coordinarsi soprattutto con l’addetto militare a Kabul, Roberto Trubiani, con il generale responsabile del comando operativo di vertice interforze, Luciano Portolano, e con Giuseppe Faraglia. Generale e incursore, Faraglia ha vissuto oltre due settimane dentro lo scalo assediato, organizzando con i suoi uomini (meno di un centinaio) voli per Roma e salvataggi all’Abbey Gate travolto prima dalla folla disperata e poi colpito dalla bomba piazzata dall’Isis-K (ramo dell’Isis che prende il nome dalla regione iraniana del Khorasan) che ha ucciso 12 marines e decine di profughi.
Fallimento Ghani
I comunicati ufficiali della Difesa segnalano che l’ultimo aereo per l’Italia è decollato il pomeriggio del 27 agosto, portandosi i militari rimasti, Faraglia compreso, e l’ultimo funzionario italiano, il secondo segretario commerciale Tommaso Claudi, diventato famoso dopo essere stato fotografato mentre issava un bambino portandolo nella safe zone dell’aeroporto.
In realtà, una qualificata fonte di Palazzo Chigi spiega che non tutti gli agenti dei servizi segreti italiani hanno lasciato il paese. La loro missione, ovviamente, è totalmente cambiata. Gli 007 italiani devono ancora proteggere i contingenti umanitari e il personale delle Ong presenti in Afghanistan come Intersos, Pangeo Onlus e la stessa Emergency (ma è noto che l’ente fondato da Gino Strada non ama interloquire con i servizi). Le regole d’ingaggio sono diverse. In primis, il nostro capocentro, i suoi agenti e gli infiltrati afghani dovranno monitorare i gruppi terroristici di al Qaida e Isis: il timore è che in mano ai Talebani l’emirato si trasformi, come accaduto nel primo governo degli studenti 1996-2001, in una calamita per estremisti e jihadisti di mezzo pianeta. Che potrebbero, dopo un addestramento a Kandahar, Herat o Mazar i Sharif, colpire nuovamente l’occidente. La nomina di Mohammad Hassan Akhund, il cui nome figura nella lista dell’Onu dei «terroristi o associati a terroristi», del figlio del mullah Omar a ministro degli Esteri e soprattutto di Sirajuddin Haqqani, capo del clan omonimo e vicinissimo alla reta fondata da bin Laden, a numero uno dell’Interno non lascia buoni presagi.
Parlare con i Talebani
I nostri servizi hanno il mandato (ufficioso) di parlare con tutti, Talebani compresi. I rapporti con il portavoce degli studenti coranici Zabiullah Mujahid sono buoni: sono infatti quasi vent’anni che il dirigente – che ha recentemente chiarito che le donne nell’emirato non faranno «i ministri, perché devono fare figli» – fa avanti e indietro tra le montagne dove si erano rifugiati i suoi adepti e le sedi dei servizi occidentali a Kabul.
Gli italiani avevano come interlocutori privilegiati anche Yunus Qanuni, ex vicepresidente del paese nato nel Panjshir, il persiano Atta Muhammad Nur, ex mujaheddin e governatore della provincia di Balkh chiamato “il professore”, e soprattutto Ismail Khan, per anni ministro dell’Energia e vecchio signore della guerra soprannominato dai suoi “il leone di Herat”.
Ma Khan, come altri vecchi interlocutori di Caravelli e dei suoi predecessori come Luciano Carta e Alberto Manenti, è stato catturato nella caduta, mentre altri leader di riferimento sono fuggiti all’estero. Su tutti l’ex presidente Ghani, un fantoccio degli americani con cui gli addetti ai lavori dell’intelligence italiana (e tedesca) non hanno mai avuto rapporti eccellenti. Per via di un carattere adamantino, certo. Ma anche perché – quando gli Stati Uniti puntarono tutte le fiches su di lui – l’Italia e altri alleati europei esposero senza remore più di un dubbio sulle sue capacità di leadership, e sulla sua reale volontà di estirpare la corruzione imperante nell’amministrazione afghana.
In pochi negli uffici della Farnesina si sono dunque stupiti quando Ghani è fuggito precipitosamente da Kabul portando con sé (così raccontano alcune cronache non verificate) valigie piene di soldi: «I limiti di Ghani noi li conoscevamo da tempo: fummo avvertiti dalle nostre spie dei rischi di una sua scalata al potere. Quando, ai tempi del generale David Petraeus, si decise che il controllo militare delle varie province dovesse passare dall’Isaf (la forza internazionale della Nato, ndr) al governo afghano, l’ex presidente Hamid Karzai incaricò proprio Ghani. Quest’ultimo, solo per mettere in piedi il suo ufficio, chiese agli alleati centinaia di migliaia di dollari. Una cifra folle, che si crede sia servita a foraggiare lui e i suoi amici».
L’intelligence italiana ha segnalato alla politica anche errori politici di Ghani: invece di fare squadra e dare continuità nell’azione di governo territoriale, dinamica fondamentale per creare fiducia nei cittadini e nell’esercito, non solo non ha limitato le malefatte di fedelissimi e funzionari, ma ha sostituito i governatori delle varie province ogni cinque-sei mesi.
Per evitare che qualcuno prendesse troppo potere e potesse fargli ombra. Un errore grave: quando lo stato è imploso e lui è scappato, la cittadinanza non ha potuto fare affidamento nemmeno su leadership politiche locali ed esperte.
La missione continua
Adesso i nostri servizi dovranno trovare nuovi interlocutori tra i vincitori. Le spie devono provare a tessere canali di comunicazione con tutti. Ma si privilegerà l’area internazionalista e politica incarnata da Baradar, piuttosto che quella militarista-jihadista, guidata dal clan Haqqani che è di fatto considerato una costola di al Qaida. Per analizzare le mosse delle fazioni tribali, che potrebbero riportare il paese ad essere il safe haven per i terroristi di mezzo mondo, per Caravelli e compagni fondamentale sarà il rapporto con i capi dell’Isi pakistana. Con il direttore Faiz Hameed, spiegano fonti accreditate, i canali sono ottimi.
Nei palazzi che contano, però, non tutti credono che l’Aise abbia fatto il massimo durante la crisi. I giudizi più tranchant riguardano la presunta incapacità di prevedere la velocità dell’avanzata talebana, e la mancanza di strategie chiare nel ritiro. Critiche che arrivano dai nemici di Caravelli nel comparto, ma vengono ribadite anche da chi pensa che l’avanzata fulminea dei soldati del nuovo vicepresidente mullah Baradar Akhund e Haqqani potesse essere prevista.
Se a Forte Braschi nessuno vuole parlare, qualche funzionario dello staff del segretario generale Ettore Francesco Sequi difende i colleghi dell’Aise. «In verità già a luglio, proprio quando Biden ipotizzava che l’esercito afghano poteva addirittura vincere o, in subordine, che avrebbe potuto combattere per 8-12 mesi, i nostri servizi ci avevano spiegato che loro agenti sotto copertura gli dicevano che non c’erano che poche settimane di margine».
All’audizione davanti al Copasir Caravelli avrebbe confermato le informazioni avute dai suoi sul campo, aggiungendo pure che persino i Talebani non si aspettavano una defezione così larga tra i soldati dell’esercito regolare.
Le stesse fonti ammettono che tra Farnesina e servizi c’è stata discussione solo sulla linea strategica in merito al rientro dell’ambasciatore (pezzi dell’intelligence spingevano perché rimanesse a Kabul, il ministero ha optato per il rientro) e sulle strategie per velocizzare il rientro del contingente: quando l’Aise ha proposto una linea interventista mandando due compagnie di paracadutisti per prendere un gate e gestirlo insieme ad altri alleati (come i tedeschi), il governo e i ministri preposti hanno optato per la maggiore cautela possibile, e usare quello già in uso dagli americani anche se congestionato.
Ora che la crisi è alle spalle, le missioni precipue dell’agenzia esterna saranno quattro: come detto, monitorare la crescita dei fenomeni estremistici (l’Isis-K da una parte, i colleghi-rivali di al Qaida dall’altra). In secundis, controllare l’andamento del traffico di oppio e analizzare i flussi migratori: il Viminale chiederà presto relazioni su probabili emergenze sul fronte balcanico: come ha spiegato Gabrielli al Copasir, se il regime talebano sarà duro come molti analisti temono, centinaia di migliaia di persone sono pronte a lasciare il paese per migrare in Europa.
In ultimo, l’Aise ha il compito di proteggere gli italiani rimasti sul campo. Non sarà ufficialmente ammesso, ma se l’ambasciata italiana è tecnicamente chiusa, dentro il palazzo sono operativi nostri agenti, altri lavorano in un centro segreto, mentre sul territorio centinaia di informatori dovrebbero presto ricominciare a fornire informazioni preziose. Ad ora infatti sono in sonno, per evitare che in una fase così tumultuosa passi falsi possano accendere sospetti su di loro.
Infine, con i Talebani il rapporto è in divenire: a parte le frasi di rito contro le barbarie con cui i Talebani 2.0 si sono presentati al mondo (giornalisti torturati e discriminazione delle donne), i leader occidentali hanno tutto l’interesse ad allacciare rapporti ufficiosi con il regime, per tentare di condizionarlo e limitarne gli eccessi. Interlocuzioni che potrebbero essere un dividendo da spendere anche per gli stessi Talebani, affamati di denaro e legittimazioni internazionali. Ad oggi, senza ambasciatori sul campo, sono i servizi a intavolare trattative e strategie con i nuovi padroni dell’Afghanistan. La missione continua.
© Riproduzione riservata