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24 febbraio 2023. Dobbiamo riconoscere un dato di fatto: l’invasione russa dell’Ucraina va avanti ormai da oltre un anno. E tutti, in fondo, se ne sono fatti una ragione
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26 febbraio 2023. Un barcone di migranti naufraga al largo delle coste calabresi: ammettiamolo, quei figli ripescati in mare non sono come i nostri figli. Ma come dimostrare coi fatti che la loro morte ci tocca?
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Questa è la rubrica DIARIO PRESENTE dell’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
24 febbraio 2023
Un anno di guerra. 365 giorni. Un anno di guerra vissuto come ogni fenomeno in questa èra digitale di cui si conosce il principio ma molto difficilmente si riesce a immaginare il destino ultimo. Un’èra che fa della rimozione un dogma intoccabile e una conseguenza tutto sommato naturale.
Talmente furioso il bombardamento mediatico, l’offerta oramai straripante di narrazioni e contenuti, che fermarsi a ragionare con la complessità del caso su qualsiasi evento è divenuto praticamente impossibile. Ma non è solo la velocità. I padroni dei grandi contenitori digitali decidono ciò che va rimosso dal nostro presente e, dunque, dal nostro immaginario futuro e dalla nostra memoria. Le figure che decidono cosa tenere e cosa cestinare, i profeti del nostro tempo, sono social media manager e spin doctor, figure che orientano l’avvenire partendo da un’analisi quotidiana che considera solo il qui e ora. Basta pensare al Covid. Alla citata guerra scatenata dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina. Il dogma è questo: la gente, gli utenti, hanno speso il giusto tempo per interessarsi e commuoversi, hanno versato soldi in charity, ora è tempo di altro. E quello che interessava prima, va rimosso, ecco il rischio, l’anomalia, perché i profeti poc’anzi citati su questo sono assolutamente dogmatici, appunto. Il passato, anche recente, è utile se produce traffico qui e ora, altrimenti si elimini, non ci si pensi né si nomini, perché le persone non vogliono più che se ne parli.
Chi vuole restare concentrato su certi temi, soprattutto su una guerra che continua a sterminare, a produrre odio che impiegherà generazioni su generazioni per essere assorbito e superato, deve compiere una lotta dalle retrovie. Guardiamo anche i nostri media tradizionali: tv e giornali. La guerra in Ucraina è diventata, in linea di massima, la quarta, quinta notizia, di solito l’ultima dedicata ai temi della cronaca nazionale e internazionale. A cambiare questa collocazione, va da sé, è soltanto l’evento che si innalza a livello straordinario rispetto all’orrore ordinario, non più d’interesse reale.
Una strage di civili? Di bambini? Una storia dal grande impatto patetico? Allora questa guerra in corso tornerà a scalare la classifica delle notizie. Altrimenti rimanga dov’è.
Niente di nuovo, si direbbe. È la società della narrazione digitale ad avere questi ritmi, a imporre queste classifiche di interesse in cui un libro, la biografia di un principe che gioca al ribelle, concorre e vince contro qualsiasi altra notizia.
Ma la guerra scatenata dalla Russia ai danni dell’Ucraina oramai un anno fa, checché ne dicano profeti e guru dell’algoritmo, è un a parte rispetto alle tante dimenticanze, ai tanti sorpassi di vicende ai danni di altri.
Il rischio di sottostimare gli effetti possibili, a partire da un allargamento del conflitto, non sembrano essere colti veramente, vissuti, con la giusta dose di preoccupazione. Quello che si sta scatenando sul suolo ucraino, a vederlo nella sua dimensione reale, non è molto diverso né distante da un conflitto che ha sempre di più caratteristiche globali. Come chiamare una guerra dove i due paesi in conflitto ricevono armi dalle superpotenze mondiali? Come prendere le parole di tanti capi di stato che evocano senza nessun pudore stermini di popoli nemici e il ricorso all’arsenale nucleare se la guerra lo renderà necessario. Propaganda bellica, si risponderà.
Come lo si è detto tante e tanto volte in passato. Peccato che spesso la propaganda si trasformi in realtà, in guerre sterminate dentro continenti e anni, militari e civili mandati al massacro.
Restiamo ai dati di fatto.
L’invasione russa dell’Ucraina va avanti ormai da oltre un anno.
E tutti, in fondo, se ne sono fatti una ragione.
26 febbraio
Cutro, paese sulla costa cotronese. A poche centinaia di metri dalla spiaggia, per le condizioni avverse del mare e la quantità di persone issate a bordo, la Summer love, una imbarcazione in legno, si spezza gettando nel mare i migranti che trasportava, centottanta in tutto. Alcuni riescono a raggiungere la riva, molti, molti altri no. Il loro viaggio, partito dalla Turchia il 21 febbraio, era ormai giunto a destinazione.
Settantadue i morti accertati al momento in cui si sta scrivendo, tra le ultime vittime recuperate in mare due bambini, uno di due-tre anni e un altro più grande, attorno ai dodici
Come nei film, citiamo il cast dei personaggi principali che hanno partecipato a questa vicenda.
Frontex. Guardia costiera. Governo italiano e Consiglio dei ministri. La premier Giorgia Meloni. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il ministro delle Infrastrutture e trasporti Matteo Salvini. Si potrebbe continuare con tanti altri nomi, quelli di procuratori e giornalisti, di pescatori e preti.
A giudicare i comportamenti, le azioni compiute o omesse, la loro tempestività, ci penserà un giudice dentro un’aula di tribunale.
Potremmo qui entrare nel dettaglio di alcune dichiarazioni dei personaggi sopraelencati, ma per rispetto delle vittime e dell’intelligenza umana è meglio risparmiarci questo penoso esercizio. Anche perché alcune di queste dichiarazioni non si elevano oltre il raglio.
Ma non è di questi individui che si vuole parlare, sarebbe troppo facile, parliamo di noi, di tutti quelli che hanno vissuto questa vicenda come la disgrazia che è senza se e senza ma, l’ennesima, di certo non l’ultima.
Come per la guerra in Ucraina, spostiamo l’attenzione su quella che una volta si definiva civiltà umana. Come abbiamo preso atto della guerra, allo stesso modo ci siamo abituati a questa strage di senza nome e senza patria, senza viso, in fondo senza vita. Il male in cuore dura un tempo oramai predefinito. Si arriverà al funerale, al momento del congedo, poi come ogni altra sciagura in mare si cestinerà fra le commozioni che non vale la pena di salvare con nome, come si fa con i file importanti.
Salvare con nome.
Per chi si è addentrato nella lettura dei tanti memoriali dedicati alla Shoah da parte dei sopravvissuti, o ha letto le biografie di chi in quella pagina terribile della storia umana giocava nella squadra degli sterminatori, o anche negli atti del processo di Norimberga, avrà avuto modo di conoscere l’addestramento che l’esercito nazista aveva istituito per i giovani soldati che entravano nei campi di concentramento a dar manforte. Detta in estrema sintesi: agli occhi delle reclute, attraverso la perversa catechesi e il quotidiano esercizio, i prigionieri dovevano progressivamente scendere di rango, diventare un sottordine. Da umani a subumani. Da uomini a ominidi, anelli mancanti tra noi e gli altri primati. Questo per rendere ordinario l’inferno in terra che stavano con tanta meticolosità realizzando.
Con questo allenamento, agli occhi del giovane soldato, dal dolore al pianto, dalla fame alla malattia, tutto dei prigionieri appariva minore, non al livello degli umani, semmai degli animali. Di specie che non arrivano a sentire per come noi sentiamo, figuriamoci ad amare, loro e i loro simili.
Non è smania di provocazione. Ma questa differenza tra noi e loro vive dentro i nostri cuori, le nostre menti. È l’unica spiegazione che tenga. Altrimenti non permetteremmo questo che è a tutti gli effetti un altro sterminio, solo frantumato, deideologizzato, fatto per soldi, da una parte, e totale disinteresse dall’altra.
Ammettiamolo, quei figli ripescati in mare non sono come i nostri figli. Il dolore delle madri e dei padri non è al pari del nostro. Quelle famiglia disperse, inghiottite dal mare, divorate dai pesci, non sono come la nostra.
In maniera sdegnata, molti lettori negheranno questa chiave di lettura. Noi non siamo di questa pasta. Noi siamo rappresentanti del mondo civile.
Ma come dimostrare coi fatti, con i tempi degli uomini e non degli algoritmi, che siamo veramente diversi? Che non consideriamo nessun essere umano al mondo inferiore a noi e alla nostra vita?
Una soluzione, forse l’unica possibile, sarebbe quella che nessuno si aspetta veramente. Tutto ormai ci chiede velocità? Tutto ormai ha un tempo entro cui vivere e sparire dalla nostra vita e dalla nostra memoria? Bene. Allora fermiamoci. Alziamo le braccia. Per un giorno. Una settimana. Un mese.
Non saremo più le macchinine impazzite del vostro gioco sino a quando il Mediterraneo non tornerà a essere un mare e non un cimitero.
Diventiamo tutti improvvisamente improduttivi.
Poi ci sarà da divertirsi.
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