Lo Stato rischia di pagare un conto salato alla guerra della fibra per la connessione veloce, iniziata da tempo tra Open Fiber (di proprietà di Cdp e del fondo Maquarie) e Fibercop (in cui il fondo Kkr che controlla la maggioranza e il Mef è socio di minoranza), con possibili ricadute sulle banche. Sullo sfondo resta perciò lo spettro di un possibile ricorso al Tar.

Secondo quanto è in grado di rivelare Domani, infatti, Open Fiber ha avviato delle interlocuzioni con alcuni studi legali per comprendere la fattibilità di portare la questione davanti a un tribunale amministrativo o, in alternativa, di seguire la strada del contenzioso in sede civile.

Nel mezzo c’è il governo. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e i sottosegretari Alfredo Mantovano e Giovanbattista Fazzolari vogliono evitare un bagno di sangue. Per questo il dossier è stato affidato al capo di gabinetto di palazzo Chigi, Gaetano Caputi, con l’ordine di fare il possibile per risolvere la questione. In questo caos, il sottosegretario all’Innovazione, Alessio Butti, pensa di tirare dentro il progetto i satelliti Starlink dell’amico di Meloni, Elon Musk, pur promettendo che sarà rispettata la scadenza del 2026. Un bel rebus quello del completamento dell’infrastruttura per la connessione veloce.

L’unica certezza è che nella legge di Bilancio il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha tagliato la spesa ai colleghi di governo per raggranellare centinaia di milioni di euro, mentre la vicenda Open Fiber rischia di costare miliardi alle casse statali.

Un disastro a cui si aggiungerebbe il naufragio di uno degli obiettivi del Pnrr e a cascata un potenziale downgrade della credibilità del sistema economico per il coinvolgimento degli istituti di credito fortemente esposti – in totale si arriva a una decina di miliardi di euro – nei confronti di un’operazione di project financing così imponente.

Senza tacere delle migliaia di lavoratori di Open Fiber. Certo, è lo scenario peggiore, apocalittico, ma che comincia a non essere più fantascientifico.

Affanno Open Fiber

Procediamo con ordine. Open Fiber, guidata all’ad Giuseppe Gola, è chiamata a dotare il paese della connessione veloce, ma da tempo la situazione economica non è affatto florida. Il flusso di cassa sembra garantito solo fino a metà novembre, al massimo si arriva a fine mese prossimo. I 660 milioni di euro stanziati nella manovra riguardano il triennio 2027-2029. Bisogna arrivarci.

Tra un mese si rischia un effetto domino con un aumento di capitale che chiamerebbe in causa Cassa depositi e prestiti. Il potenziale esborso ammonta a circa 2 miliardi di euro (cifra variabile in base alle decisioni Macquarie), coinvolgendo di conseguenza il ministero dell’Economia.

Ma il dicastero di Giorgetti è a sua volta socio di minoranza (con circa il 16 per cento delle quote) dell’altro attore chiamato a garantire la copertura della fibra, Fibercop (in precedenza Tim e oggi in maggioranza controllata dal fondo Kkr) in cui da luglio è amministratore delegato, Luigi Ferraris (ex Ferrovie), mentre Massimo Sarmi è il presidente.

Il casus belli tra le due società è la spartizione delle abitazioni, i numeri civici, da coprire. Di recente è stata aperta la partita delle riassegnazioni: Fibercop ha richiesto l’aggregazione di 40mila civici che invece Open Fiber aveva messo nel proprio conto. Perché a quel punto avrebbe potuto presentarsi alle banche e chiedere lo sblocco dei finanziamenti necessari rivendicando lo stato di avanzamento dei lavori.

La richiesta di riassegnazione è stata interpretata da Open Fiber come il sintomo di non volere il dialogo. Il sospetto è che Fibercop sia intenzionata a mettere il bastone tra le ruote per evitare – a lungo raggio – che vada a buon fine il progetto di fusione tra le due società, entro il 2026. Converrebbe al competitor avere una Open Fiber debole.

Se l’operazione-fusione filasse liscia, infatti, per Fibercop scatterebbe una clausola che imporrebbe di versare 2 miliardi di euro a Tim (di cui la società ha ereditato il compito di realizzare la fibra). Da parte sua, Fibercop ritiene di aver solo seguito il programma stabilito già in passato sui lavori progettati addirittura quando era Tim titolare del progetto. «Non vogliamo ostacolare nessuno e siamo pronti a collaborare», ha rivendicato l’ad Ferraris in un’intervista Milano finanza.

Il ruolo di Caputi

Qui entra in gioco il governo con Caputi, investito dal caso direttamente da Meloni per verificare l’effettiva volontà di confronto tra le parti. Il capo di gabinetto di palazzo Chigi ha tenuto degli incontri riservati e sembrava aver raggiunto l’obiettivo. Poi qualcosa si è inceppato sulla questione delle abitazioni da coprire. Caputi ha convocato Sarmi a palazzo Chigi. Il colloquio è stato interlocutorio. Il capo di gabinetto è stato descritto molto «irritato» e «nervoso» per la piega che ha preso la vicenda.

Un malumore che alimenta le voci di un suo addio: per Meloni è fondamentale risolvere la situazione. Il capo di gabinetto, però, ha fatto capire che non può fare miracoli. Anche perché nell’esecutivo non c’è stata questa granitica compattezza, al Mef c’è una divisione tra chi parteggia per Fibercop e chi per Open Fiber.

La società di Cdp e Macquarie vuole evitare di arrivare a novembre con l’acqua alla gola e ha avviato un’interlocuzione con l’Europa per rimodulare gli obiettivi. Si parte da una base: durante le operazioni di cablaggio, la società ha ritrovato delle “case fantasma” che non erano inserite nel bando predisposto da Infratel, la società del ministro delle Infrastrutture che mappa il territorio e che predispone le gare, ovviamente coperte dall’opera di cablaggio. E ha quindi chiesto all’Ue di inserirle nel conteggio dei risultati così da passare all’incasso.

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