- È vero che il Pd dovrà decidere se guardare alla sua destra oppure alla sua sinistra. È vero che dovrà cercare di uscire dalle ztl. È vero che dovrà scegliere un segretario senza che la scelta appaia come un casting.
-
Ma il punto, temo, non è lì. O almeno, non è solo lì. All’origine del Pd c’è infatti un equivoco. E cioè l’illusione che il partito potesse stabilire il suo insediamento su di un territorio pressoché infinito.
-
Si trattava di chiamare a raccolta tutte, ma proprio tutte, le culture politiche della nostra novecentesca democrazia. Oggi il Pd è troppo grande per sbrogliare da sé la matassa che è.
Sulla crisi e sul destino del Pd si esercitano da giorni alcune delle migliori intelligenze del paese. E leggendo le loro analisi si resta sempre ammirati dalla complessità e sottigliezza di tutti quei ragionamenti che spiegano, auspicano, assicurano, suggeriscono, promettono e lasciano intendere. Un esercizio di politicismo, si dirà da parte degli antipatizzanti. Eppure intriso di una passione civile che non merita l’irrisione.
Il punto però sta nel fatto che quando la politica si ingarbuglia fino a diventare una matassa pressoché inestricabile occorrerebbe rassegnarsi a cercare risposte più semplici di quelle che l’intelligenza e il mestiere sono soliti suggerire. E forse la risposta più banale è proprio quella che infine consente di denudare il re e magari di avvertire che sarebbe il caso di rivestirlo di panni più acconci.
Poiché, certo, è vero che il Pd un giorno o l’altro dovrà decidere se guardare alla sua destra oppure alla sua sinistra. Certo, è vero che dovrà cercare di uscire dalle ztl e inoltrarsi nelle immense periferie del paese. Certo, è vero che dovrà scegliere un segretario senza che la scelta appaia come un casting. Certo, è vero che dovrà aprirsi all’inedito smettendo di ristampare ogni volta i suoi vecchi testi (metafora dei signori e signorini che continuano a cercare vanamente ma profittevolmente di governarlo). Ma il punto, temo, non è lì. O almeno, non è solo lì.
Un territorio infinito
All’origine del Pd c’è infatti un equivoco. E cioè l’illusione che il partito potesse stabilire il suo insediamento su di un territorio pressoché infinito. Si trattava di chiamare a raccolta tutte, ma proprio tutte, le culture politiche della nostra novecentesca democrazia. Democristiani, comunisti, repubblicani, socialisti, azionisti e via elencando. Allargando lo spettro verso qualche radicale che fosse disponibile, qualche ecologista che fosse interessato, qualche nuovista che volesse essere della partita.
A questi ultimi, i nuovisti appunto, veniva riservato, almeno a parole, un trattamento di riguardo poiché il partito amava celebrare l’inedito e guardare verso orizzonti lontani. Ma erano i partiti di prima, le forze di prima, gli uomini di prima e soprattutto le culture di prima che avrebbero dovuto conferire al nuovo partito la nobiltà delle loro tradizioni e il vigore dei loro apparati. Nonché l’equivoco di essere state sempre in pace tra loro.
Così si sono radunati sotto lo stesso tetto democristiani che avevano a suo tempo promosso il referendum contro il divorzio e comunisti che negli stessi anni avevano tirato qualche bottiglia molotov. Come a dire che sotto le nuove bandiere si poteva celebrare allegramente il falò delle vecchie culture politiche. Consegnandole alla storia. Piegandole al proprio racconto. E soprattutto usandone il blasone per consentire ai loro spensierati eredi di conservare e magari accrescere il loro confortevole tenore di vita.
Stipate dentro lo stesso partito, le culture di una volta si sono rinsecchite per paura di disturbarsi a vicenda. Facendo finta di non essere più quel che erano state. Così, si poteva dar credito a chi immaginava il Pd come una nuova Dc un po’ più spostata a sinistra (la “balena rosa”, per ricorrere al copyright del sottoscritto) e chi lo raccontava come la quarta edizione del Pci (per usare la parola d’ordine dei suoi avversari, ma anche la consolazione di non pochi tra i suoi discendenti). Salvo il fatto che, non potendo essere le due cose insieme, la condizione della convivenza era quella del silenzio, o dell’ambiguità, su tutti i temi più delicati. E cioè, in una parola, sulla storia del paese e sul suo destino. Parafrasando François Furet sono state sepolte le illusioni del passato, illudendosi così di propiziare un futuro a sé stessi.
Questione originale
Questa ambiguità poteva reggere solo a una condizione. E cioè che, non appena varcati i confini del Pd, regnasse l’inciviltà. “Noi” eravamo custodi delle cose migliori perché “loro” erano relegati nei territori dell’impresentabilità, della grettezza, dell’ottusità. Solo a patto di credere in questa improbabile verità poteva aver senso che sotto le bandiere del nuovo partito si radunasse il resto del mondo, stretto in un abbraccio che mescolava gioiosamente il meglio di quanto generazioni di partiti, leader e intellettuali avevano prodotto negli anni dei loro più strenui combattimenti.
Chi scrive, nel suo piccolo, avverte la responsabilità di avere partecipato a questa illusione e dunque concorso a questo equivoco. Ma non devo essere stato il solo se penso che sotto quelle stesse bandiere hanno militato persone che oggi sono agli antipodi l’uno dall’altro e talvolta perfino agli antipodi da sé stessi. Tant’è. La politica non è mai una strada così lineare, e la storia si diverte a ricordarci che i nostri percorsi futuri sono disegnati lungo mappe che furono redatte molto prima che noi ci sognassimo di disegnare il nostro traguardo. Solo che noi tendiamo a illuderci che quello che a noi fa comodo rimuovere agli altri non sia troppo scomodo dimenticare. Cosa che solitamente non accade.
Dunque, dovremmo forse cercare a questo punto di rimettere insieme passato e presente senza illudersi che il futuro arrivi prima del tempo a sanare le contraddizioni che non abbiamo saputo elaborare. Così, ora la questione finisce per essere la stessa di prima, quando l’abbiamo elusa. E cioè il fatto che per governare e dare senso a un territorio così esteso occorre che prima venga chiarita l’identità, la natura, il significato di quel che si è e di quel che si cerca di diventare. Diradando la nebbia degli equivoci e delle ambiguità che a tutti ha fatto comodo addensare.
Un partito troppo grande
Detto altrimenti, il Pd è troppo grande per sbrogliare da sé la matassa che è. Troppo grande nell’estensione e contraddizione delle culture politiche che lo hanno messo al mondo. Troppo grande nella dilatazione dei suoi confini attuali, che affacciano come è noto da una parte su Carlo Calenda e dall’altra su Giuseppe Conte – che è un po’ come dire su Giovanni Malagodi e su Guglielmo Giannini, non proprio due cloni l’uno dell’altro. E troppo grande anche nei suoi (più risicati) numeri elettorali, dato che parliamo ancora oggi di una forza che raccoglie il voto di un italiano ogni cinque – almeno tra coloro che si disturbano ad andare a votare.
Insomma, il Pd non può sciogliersi e scomparire al modo dei socialisti francesi, conciati assai peggio quanto al numero degli elettori. E non può neppure però illudersi di incontrare per strada un segretario, o una segretaria, che riesca a dirimerne i nodi in nome di una identità – l’ennesima – così sfolgorante da poter mettere in ombra tutte quelle controversie che la storia del paese ci ha lasciato in eredità.
In altre parole, credo che al Pd oggi converrebbe piuttosto cercare di fare finalmente – e dolorosamente – i conti con la rimozione del passato. Sciogliendo l’amalgama a suo tempo non riuscito e tentando di riafferrare il bandolo della storia. Quella storia che non è mai un buio medioevo da cui fuggire a gambe levate, ma semmai un barlume di rinascimento presso cui cercare una migliore e più autentica ispirazione.
Il futuro è nascosto lì, da qualche parte. Ma se ci si ostina a non cercarlo, sarà difficile trovarlo.
© Riproduzione riservata