Opposizioni ancora sulle barricate. Il Viminale: la questura sta operando. Il presidente del Senato: il saluto romano è reato? Lo dirà la Cassazione
Sopire, troncare, troncare, sopire. Il giorno dopo l’esplosione del caso dei saluti romani alla commemorazione dei morti di Acca Larentia, o meglio del silenzio della premier Giorgia Meloni su quelle braccia tese, in FdI la raccomandazione è appunto, «sopire, troncare», evitare di rinfocolare la polemica. La premier per ora non ha intenzione di dare occasione. Ieri fra i pochi Fratelli d’Italia che hanno accettato inviti in tv, il responsabile organizzazione Giovanni Donzelli ha chiarito che i salutatori romani sono «duecento imbecilli» e che la sinistra farebbe meglio pensare ai casi suoi: «Non ho sentito la Schlein condannare Degni, che il Pd ha messo alla Corte dei conti e che inneggiava a Toni Negri, aspetto dalla Schlein la condanna, poi ne parliamo».
Le occasioni di rifare zuffa non mancheranno. Meglio non insistere però: una parte dei popolari europei già si dispone all’analisi del sangue della premier italiana: «In Europa non c’è posto per il saluto fascista e noi lo condanniamo con la massima fermezza», dice Manfred Weber, leader del Ppe, e poi spalleggia Forza Italia, che si è dichiarata antifascista: «Siamo pienamente d’accordo con la chiara posizione assunta dal vice primo ministro Antonio Tajani».
A casa intanto le opposizioni chiedono che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi riferisca in aula dei fatti del 7 gennaio. Già oggi pomeriggio Elly Schlein, al question time della Camera, lo interrogherà sul perché certi «fenomeni di fascismo non vengono contrastati dal governo». Il titolare del Viminale in realtà ha già risposto ieri davanti alla Commissione per il contrasto all’antisemitismo e all’istigazione all’odio: la manifestazione ad Acca Larentia si svolge «da diversi anni, anche con una partecipazione superiore in passato». E ha negato l’inerzia delle forze dell’ordine: «Chi l’ha detto che la questura non stia operando l’identificazione delle persone, e che quello che è avvenuto non sia oggetto di relazione all’autorità giudiziaria?». Ma vietare le manifestazioni no, è «operativamente meno proficuo».
A non contenersi, neanche stavolta, è invece il presidente del Senato, e seconda carica dello stato, Ignazio La Russa. Che spiega che il suo partito non ha responsabilità sui saluti romani, ma in un dialogo con Repubblica avanza un dubbio «da avvocato»: «Finora ci sono state sentenze contrastanti sul fatto che il saluto romano in occasione di celebrazioni di persone decedute sia reato oppure no». Per lui il problema politico non c’è, casomai «è importante che si faccia chiarezza dal punto di vista giuridico», «una cosa è l’apologia di fascismo, una cosa è la ricostituzione del partito fascista, un’altra è la commemorazione di deceduti» – durante un funerale il fratello Romano aveva alzato il braccio, lui l’aveva liquidata come una «papera».
La Russa aspetta «con interesse» il verdetto: il 18 gennaio la Corte di Cassazione si riunirà per fornire una linea interpretativa sulla questione. Il caso da cui è nato il giudizio è la commemorazione a colpi di «presente» e braccia tese di Sergio Ramelli, militante del Fronte della Gioventù, a Milano nel 2016. Due sentenze successive arrivarono a conclusioni opposte. L’opposizione comunque attacca: al di là del problema giuridico «c’è da sapere se La Russa condanna in maniera chiara e inequivocabile questi gesti oppure no», secondo il rossoverde Peppe De Cristoforo.
La fiamma arde ancora
Ma si scontra su un muro di gomma. E aria di revisioni, in FdI proprio non c’è. Né nella famiglia di provenienza. A Domani l’ex leader di An Gianfranco Fini anzi applaude al silenzio di Meloni: «Ma che doveva dire? L’anno scorso cosa è stato detto? E ci fu la stessa situazione, e anche l’anno prima. Due righe sul giornale. Quest’anno pagine e pagine. C’è un limite alla faziosità. FdI non c’entra. Fabio Rampelli ha fatto una dichiarazione ineccepibile: quelli sono cani sciolti». E dire che proprio Fini è stato uno dei pochi a chiedere a Meloni, una volta diventata premier, di pronunciare finalmente la parola «antifascista». Meloni francamente se ne infischiò. A suo tempo l’ex presidente della Camera propose anche di togliere la fiamma dal simbolo di An: «Se ne discusse», ricorda, ma alla fine la brace «è rimasta lì. Ma non è una questione centrale. La sinistra è a corto di idee, per questo si attacca al sempre più stanco tormentone antifascista».
Certo non è una discussione che Meloni vuole affrontare, non adesso almeno: quando sta prendendo la rincorsa per raggiungere quota 30 per cento alle europee. Non è il momento di rompere con i nostalgici fra i suoi, pochi o tanti che siano, a Roma e in giro per l’Italia, quelli che negli anni del 3 per cento le sono stati fedeli. E non tanto per un fatto di percentuali elettorali, ma per lealtà con quei tempi.
In realtà la premier aveva in mente una rifondazione del partito, per allargarlo e dargli un profilo di destra conservatrice. Alla conferenza stampa di inizio anno lo ha smentito, ma temporaneamente: «Sono cose su cui non ho la testa, sicuramente è una mia aspirazione quella di rappresentare sempre più cittadini, ma mi pare di averlo fatto sia nella classe dirigente di FdI, sia nell’allargamento delle candidature a nuovi mondi. Un lavoro che bisogna continuare a fare».
Dove la porta il cuore
Ma potrà davvero farlo? Difficile, spiega lo storico Davide Conti, autore del recente Fascisti contro la democrazia. Almirante e Rauti alle radici della destra italiana (Einaudi): «FdI nasce dalla rottura del processo con cui Fini aveva avviato il percorso di An, “contro” Fini e tutto ciò che ha cercato di risignificare l’identità della destra postfascista». Ma c’è un motivo più profondo, ed è «la natura di componenti sociali niente affatto marginali della società italiana. Da un lato le classi dirigenti che praticavano il sovversivismo dall’alto e dall’altro quelle medio-piccolo borghesi, che oggi rappresentano l’elettorato meloniano e ieri hanno rappresentato la base del consenso al fascismo storico». Infine: «Meloni non può prendere le distanze dal luogo simbolico di Acca Larentia: quella è una sezione del Msi. Lì sta il cuore identitario dell’estrema destra, tutta. Oggi manifesta in forme separate, ma quella comunità politica rievoca la stessa memoria e lo stesso nucleo d’origine».
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