Il sottosegretario era considerato il Mr Wolf di Meloni, il “ponte” con magistratura, imprese, Vaticano e apparati. Sulla carta il potere non gli manca. Ma non riesce a incidere, e per ora ha deluso gran parte dei suoi interlocutori
Il potere non gli manca di certo. A palazzo Chigi continua a essere molto ascoltato e riverito nel ruolo di messaggero di Giorgia Meloni. Ma Alfredo Mantovano, silente sottosegretario alla presidenza del Consiglio, esce un po’ ammaccato o addirittura ridimensionato da quest’anno abbondante al fianco della premier. Ha perso smalto o comunque non è stato all’altezza delle aspettative.
Il parallelo con Letta
Per molti doveva essere il “Gianni Letta” del governo Meloni, ricalcando le orme del grande mediatore degli anni del berlusconismo. Un profilo chiamato a sbrogliare le matasse del fondatore di Forza Italia. Da Letta c’era la fila per accreditarsi: dal mondo economico e bancario fino a quello culturale, passando per i grand commis di stato. Insomma Silvio Berlusconi pronunciava il ghe pensi mi a favore di telecamere, ma a pensare a risolvere i problemi c’era «il dottor Letta», come amava ripetere l’ex presidente del Consiglio.
Con la diplomazia felpata sminava il terreno, laddove possibile, spargeva rassicurazioni, smussava le forzature a ogni strettoia. Così il parallelo con Mantovano impallidisce. Letta indossava i panni del grande ambasciatore che non appartengono all’attuale sottosegretario.
Anche per l’indole caratteriale intransigente, spigolosa, marcatamente più ideologica. È storia nota che il Mantovano abbia posizioni cattoliche radicali, ultraconservatrici, che lo hanno portato a sposare delle battaglie senza troppi compromessi. L’unico, vero, tratto comune con Letta è probabilmente la capacità di coltivare i silenzi pubblici, muoversi lontano dai riflettori. Tanto che il compito di interlocutore viene affidato più a Gaetano Caputi, capo di gabinetto di Meloni, che però ha un ruolo tecnico. Non ha il mandato politico che invece sarebbe proprio del sottosegretario.
Giustizia
La scarsa volontà di Mantovano sul farsi mediatore è stata palese per quei settori della giustizia che speravano in una sponda del sottosegretario – di professione magistrato – rispetto ai dossier diventati via via più scottanti. Su tutti il rapporto, quantomeno complicato, con la Corte dei conti, entrata spesso in rotta di collisione con palazzo Chigi. Soprattutto quando di mezzo c’è stato il Pnrr.
La magistratura contabile avrebbe auspicato di trovare un interlocutore pronto a recepire le istanze. Solo che Mantovano, quando c’è stata la polemica sul controllo concomitante della magistratura contabile, ha parlato con toni meloniani. «La Corte dei conti non ha i poteri di sostituirsi alla Commissione europea sul vaglio del Pnrr», ha detto in uno dei rari interventi pubblici. Mettendo una pietra tombale sul dialogo.
Stesso discorso è stato applicato alla riforma della giustizia, altro punto su cui Mantovano era guardato con interesse. Solo che, per l’ennesima volta, non ha rispettato le attese. Da magistrato apparteneva alla corrente di destra Magistratura indipendente e non è certo avvezzo al dialogo con altre settori della magistratura. Difficile possa farsi interprete di certe preoccupazioni, come quelle emerse dalla riforma Nordio attualmente all’esame del parlamento.
Tanto che i vertici della Corte oggi guardano al Colle più alto delle istituzioni, il Quirinale, quando ravvisano eventuali scontri. Ma, si sa, il presidente della Repubblica non può andare oltre una moral suasion. Le decisioni vengono prese altrove, a palazzo Chigi. E portano la firma della premier. «Giorgia non si lascia condizionare», è la frase che rimbalza come un mantra alla presidenza del Consiglio. Al massimo ascolta, ma se sente odore di compromesso, passa altrove. Quasi per paradosso si irrigidisce.
Il potente sottosegretario diventa esecutore, una parte politica complementare al pensiero della premier. Ai tavoli Mantovano partecipa solo per portare il “verbo” della sua leader, interpretando le sue azioni. «Quando parla Mantovano è come se parlasse Meloni», sintetizza una fonte governativa, dando un’accezione positiva a questo approccio. Tra i due non c’è mai stata una diversità di vedute, raccontano, hanno marciato uniti e compatti. Lei detta la linea, lui la segue.
Servizi e sconfitte
Solo che, alla lunga, il rischio è quello dell’effetto appiattimento per un politico navigato che veniva descritto come il “premier-ombra”, tanto per tornare al parallelo con Letta. Di risultati personali, invece, se ne vedono pochi. I mondi dell’economia non cercano di accreditarsi presso di lui. Sfumano quei “pieni poteri” che stava accumulando nei primi periodi a palazzo Chigi.
Addirittura sui dossier più importanti per le sue sensibilità non ha portato a casa granché. Anzi. Il sottosegretario, con delega ai servizi (grazie a una norma ad hoc confezionata all’insediamento del governo), non è riuscito a piazzare Bruno Valensise alla guida del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis). Era un obiettivo su cui aveva lavorato silenziosamente.
Quando c’è stato il caso-Talò, il consigliere diplomatico di Meloni beffato da uno scherzo telefonico di comici russi, si era aperto uno spazio in cui incunearsi. Sfruttando le dimissioni di Talò, Mantovano ha cercato di far nominare Elisabetta Belloni, attuale numero uno del Dis, come consigliera diplomatica per promuovere Valensise. È andata diversamente: la premier ha voluto al suo fianco Francesco Saggio. E non c’è stato alcun spostamento al Dis.
Quella dei servizi è, del resto, una grande passione del sottosegretario. Fin dal suo insediamento aveva annunciato la volontà di metterci mano, realizzando una grande riforma. Con il punto di approdo di un’unica agenzia per superare l’attuale divisione tra Aisi, che si occupa di sicurezza sul piano interno, e Aise, che invece svolge attività di intelligence al di fuori del territorio nazionale.
Mantovano la descrive come un’operazione di razionalizzazione dei servizi, che però ha creato malumori a più livelli. Dal ministero dell’Interno di Matteo Piantedosi fino alla Difesa di Guido Crosetto, sono scattate delle resistenze. Da qualche mese, quindi, il progetto è finito in stand-by. Anche se il dossier potrebbe essere riaperto con un blitz, come temono gli oppositori dell’iniziativa. Resta il fatto che il sottosegretario – per ora – non è riuscito a far valere il suo peso nemmeno su un punto che gli sta molto a cuore.
Vittorie minori
Un contentino è arrivato di recente dalla ripartizione delle risorse del nuovo bilancio di palazzo Chigi: il dipartimento per la lotta alla droga ha ottenuto 9 milioni e 200mila euro di dotazione con un aumento oltre 2 milioni e mezzo di euro rispetto all’anno precedente. Almeno ha piazzato una sua bandierina.
Ma allora qual è il vero ruolo di Mantovano? Oltre a quello di rappresentare Meloni ai tavoli, in assenza della premier, il sottosegretario – anche per la delega che gli è stata affidata – è il filtro dei provvedimenti più delicati. I decreti pesanti, sia politicamente che economicamente, passano tutti dal suo tavolo, perché la presidente del Consiglio non ha sempre il tempo per valutarli nel dettaglio. E di «Alfredo» non dubita.
Questo lavorio di cesello è anche un modo per evitare di entrare in contatto con l’altro potentissimo sottosegretario di palazzo Chigi, Giovanbattista Fazzolari, che è più vulcanico, con una spiccata vis polemica verso gli avversari, perciò aduso a cercare la dichiarazione a effetto per lasciare traccia di sé. La proverbiale concorrenza tra i principali consiglieri si sarebbe, per questo, affievolita. «Sono amici e vanno d’amore e d’accordo», tagliano corto da palazzo Chigi, cercando di spazzare via il peso del dualismo. Ma in realtà entrambi hanno trovato un territorio da coltivare, che spesso non è nemmeno confinante. Giocano in campi diversi. Anche se la partita di Mantovano è un po’ incolore.
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