Le riforme costituzionali proposte dal governo rispondono a una visione in cui solo il potere esecutivo può rappresentare la volontà del popolo. Ma il voto al leader politico non è l’unico atto legittimante. Le più importanti riforme degli ultimi due decenni nel campo dei diritti sono state introdotte per iniziativa o per monito delle corti, cui i cittadini insoddisfatti si rivolgono con crescente frequenza
Il colpo di scure della corte di Manhattan sul capo biondastro di Donald Trump puntuale resuscita lo sdegno populista per l’ingerenza del potere giudiziario. Lo scorso giovedì l’ex presidente è stato dichiarato colpevole dei trentaquattro capi d’accusa relativi allo scandalo sessuale che avrebbe pesato sulle elezioni presidenziali del 2016. Secondo una reazione più che pavloviana, i custodi del sacro fuoco della sovranità popolare censurano l’empietà dei giudici: il potere giudiziario vuole fermare a colpi di sentenze un leader politico crismato dalla volontà inappellabile del popolo, e che oggi torna a scaldare i cuori dell’America più profonda e verace.
Nel suo clamore iconico, questo evento esprime una tendenza che da decenni va acutizzandosi, vale a dire lo scontro tra poteri dello Stato. Secondo una lettura consolidata soprattutto a destra, ma non solo, i giudici esondano con dolo per conquistarsi un potere politico che per Costituzione non spetta loro. Si tratterebbe di un autentico e pianificato attacco a chi solo è legittimato a rappresentare la comunità. In forza di tale richiamo alla legittimità politica, il potere esecutivo, in Italia come altrove, tenta oggi di introdurre meccanismi costituzionali che riconducano il potere giudiziario sotto un più efficace controllo del governo.
Uno degli argomenti meno convincenti di chi difende l’attività delle corti è di natura morale, o peggio ancora moralistica, relativo com’è alla disciplina e alla presentabilità del ceto politico. I tribunali interverrebbero giocoforza per arginare un sistema di scostumatezze, scandali e favoritismi. La legittimità dei giudici proverrebbe quindi, in primo luogo, da una vocazione alla tutela dei buoni costumi politici. Eppure, c’è un argomento ben più forte per ribattere alle accuse di esorbitanza e denunciare il carattere spesso proditorio dei molti tentativi di irregimentare i giudici: la volontà popolare non deve né può essere considerata come la fonte unica della legittimità politica.
L’argomento, di frequente usato a destra, secondo cui esisterebbe una relazione diretta, di natura quasi personale, tra elettori ed eletti sa molto di anni Venti del Novecento, quando si guardava al detentore del potere esecutivo come all’interprete ultimo della volontà dei cittadini. Il popolo era un’entità immaginaria, che veniva non solo resa manifesta, ma di fatto creata, dalla decisione sovrana dell’esecutivo. Al tempo, la sola idea che un tribunale potesse rappresentare un’istanza popolare era intesa come un’apologia dell’eversione.
Ma le Costituzioni del Secondo dopoguerra hanno definitivamente messo in mora questa concezione metafisica della relazione personale, che pure oggi si vorrebbe restaurare con l’elezione diretta del premier. La legittimità costituzionale nasce da un’articolazione complessa di poteri, che vede sì nella volontà popolare il suo centro propulsivo, ma non si esaurisce nella sua espressione tramite elezioni. Il potere del popolo risiede piuttosto nella complessa dialettica tra poteri scientemente posti in tensione tra loro perché nessuno di essi possa prevalere sull’altro.
Sicché, è tutt’altro che eversivo sostenere che il popolo è rappresentato da tutti gli organi dello stato, quelli eletti e quelli non eletti, nella loro complicata interazione. Non c’è alcun bisogno di scomodare la morale: basta la politica, in una declinazione più aderente all’impalcatura delle Costituzioni del secondo Novecento.
Oggi le corti, dalle più basse alle più alte, si fanno ricettrici di rivendicazioni ed esigenze cui il più delle volte la politica non sa dare ascolto. Le più importanti riforme degli ultimi due decenni nel campo dei diritti, dalla famiglia al lavoro, sono state introdotte per iniziativa o per monito delle corti, cui i cittadini insoddisfatti si rivolgono con crescente frequenza.
Beninteso: questo non accresce la legittimità del potere giudiziario, che sempre gli deriva dalla Costituzione. Più semplicemente, attiva e ravviva la sua naturale propensione a integrare, entro i limiti previsti, il potere legislativo e a vigilare sulla legittimità costituzionale delle leggi.
Forse è questa la chiave per meglio vagliare l’opportunità delle attuali proposte di revisione costituzionale. Certo, è tutt’altro che folle pensare che le Costituzioni debbano rispondere ai mutamenti della vita sociale.
Si badi però a che tra le motivazioni delle modifiche non vi sia la neppure troppo tacita esigenza di restaurare una visione irrancidita del potere esecutivo come scrutatore del cuore popolare, naturalmente avverso alle cervici indurite di funzionari imparruccati.
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