Le ennesime precisazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa sul caso del giornalista della Stampa Andrea Joly, la pretesa di essere stato di nuovo frainteso da tutti, dicasi tuti, gli inviati parlamentari, l’impacciato tentativo di distinguo nel pur «atto odioso» del pestaggio da parte di CasaPound «non al giornalista – e dunque alla stampa – ma a un cittadino, a un civile» perché il giornalista «non si è dichiarato», finiscono per sottolineare che le parole di Sergio Mattarella al Ventaglio, in granitica difesa della libertà dell’informazione, hanno colpito duro Giorgia Meloni e i suoi famigli nel tragico vizietto di non sopportare la stampa.

Da palazzo Chigi arriva infatti qualche tenue segnale di ripensamento dei rapporti con la stampa. Vedremo alla ripresa autunnale se questi nuovi propositi avranno una ricaduta reale e concreta.

La continua sfida della Lega mette infatti Meloni di fronte a un bivio: scegliere di tornare a fare la “capa” della destra-destra italiana, cercare la spallata pigiando sul tasto del premierato, oppure cercare una retromarcia, a patto che non le faccia perdere la faccia.

La congiuntura nefasta

Il fatto è che gli astri, per la premier, si sono allineati: ma nel senso che non c’è una cosa che va dritta. Nel post voto europeo sul suo tavolo sono arrivati al pettine i tanti nodi lasciati aperti, e ingarbugliati, in tutta la prima parte della legislatura.

E si stanno risolvendo male, uno dopo l’altro. I rapporti con il Colle, naturalmente non quelli personali fra Mattarella e Meloni, prendono la forma di una coabitazione difficile, nonostante tutte le accortezze del presidente di non entrare nel merito delle scelte del governo e nella maggioranza, se non da garante della Costituzione.

Mercoledì, ancora alla cerimonia del Ventaglio, il capo dello stato, che pure ha alzato un cartellino rosso inevitabile sulla libertà di informazione, sulla mancata elezione di un giudice costituzionale e sui provvedimenti sulle carceri, ha glissato sul tema dell’indebolimento dell’Italia in Europa, e ribadito che non è suo compito entrare nel merito del premierato.

Ma alle Settimane sociali, sempre sui principi costituzionali, aveva detto che il ruolo delle assemblee elettive «è insopprimibile» e che devono esserci «limiti alle decisioni della maggioranza, nel senso che non possano violare i diritti delle minoranze». La ricaduta sul premierato è inevitabile.

Dall’Europa per la premier ogni giorno arriva una pessima notizia. L’ultima è che la presidenza di Ecr, che si è sgretolato mentre lei era occupata a cacciarsi nell’angolo con gli altri capi di governo, le verrà soffiata dal PiS dell’ex premier polacco Morawiecki. Un avvicendamento in autunno era possibile, ma così è un nuovo smacco. Le raccomandazioni all’Italia della commissione sullo Stato di diritto, se anche fossero meno gravi di come hanno scritto i giornali dell’opposizione, certo non sono complimenti per il governo.

Che in Europa la strategia di Meloni abbia deluso tutti, anche gli amici, lo dimostra l’ammissione di Sabino Cassese: «Nell’intreccio tra coerenza di parte e interesse nazionale è prevalsa la prima». Cassese è solo la voce più autorevole dei tanti moderati o liberali sdoganatori che hanno il dubbio (è un eufemismo) di aver sopravvalutato la presidente del Consiglio.

In Italia le cose non vanno meglio. La Lega ormai oscilla fra la sfida a destra su FdI (con esiti esilaranti, come ad esempio la tentata legge contro il linguaggio di genere) e le iniziative che imbarazzano tutto il governo.

Dall’altra parte dell’alleanza, l’attivismo di Antonio Tajani, pungolato dai Berlusconi, rende ancora più visibili le crepe aperte nella maggioranza. Se c’era un jolly che la destra poteva giocare contro il centrosinistra, era quello dell’unità nonostante tutto. Oggi le cose non stanno più così. Le fibrillazioni sono cominciate con l’autonomia differenziata, adesso si riverberano in ogni dossier che arriva alle camere.

L’autunno del premierato

Infine, ma è il punto, storte, anzi stortissime, stanno andando le audizioni in commissione alla Camera sul premierato. Anche gli esperti chiamati dalla destra fanno fatica a non ammettere i bachi contenuti nel testo licenziato dal Senato. Qualche settimana fa il presidente Nazario Pagano ha sostanzialmente accettato la tesi delle opposizioni secondo cui non è possibile chiudere la lettura del premierato senza affrontare il tema della legge elettorale. Le opposizioni hanno avanzato obiezioni ineccepibili, i tecnici di palazzo Chigi ormai non lo negano più. Mantenere il testo com’è è impossibile.

Peraltro Roberto Calderoli, forse non in maniera del tutto amichevole verso la riforma, nel testo licenziato da palazzo Madama, ha fatto inserire una norma transitoria che stabilisce che il premierato non partirà finché non ci sarà la nuova legge elettorale. In commissione le audizioni procedono a settimane alterne con quelle sul raddoppio del Csm, il che se non dimostra la volontà di rallentamento, dimostra almeno che la maggioranza – leggasi la premier – in fondo non ha più così tanta fretta di portare a casa il testo.

Che potrebbe accompagnare tutta la legislatura, portandosi però appresso un treno di polemiche continue, e continui smacchi per palazzo Chigi. E alla fine della via crucis c’è il referendum, senza quorum, che negli incubi di Meloni è una sconfitta sicura. E in quel caso, prima o dopo il voto politico che arrivi, sarebbe difficile mantenere il proposito «chi se ne importa, non mi dimetto». Vedremo alla ripresa, quale marcia ingranerà la riforma. Una retromarcia aperta è impossibile.

Più palatabile una marcia lentissima, come un treno che va ad arenarsi su un binario morto. Aiutata dalla sessione di bilancio, spiega un autorevole esponente di Forza Italia: «In autunno, nella sessione di bilancio, il governo avrà da affrontare problemi alti come palazzi. Il premierato potrebbe ancora essere utile: ma solo come arma di distrazione di massa».

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