Convocate per il 12 settembre (salvo accordo) le camere per l’elezione dei consiglieri. FdI pronto a cedere il dg ai leghisti, FI vuole certezze sulla ratifica della presidente
Tutto rinviato, ancora una volta. Le nomine Rai slittano, Giorgia Meloni ha deciso di riprendere in mano il dossier servizio pubblico al rientro dalla pausa estiva. Saltato il vertice a tre che avrebbe dovuto dirimere le questioni ancora in sospeso tra i partner di coalizione, ma ci sarebbero stati dei contatti tra i leader del centrodestra che poi hanno permesso di fissare l’elezione dei consiglieri per il 12 settembre.
Il rinvio, l’ennesimo dopo le disponibilità manifestate (a vuoto) dalle camere per il voto sui quattro consiglieri che elegge il parlamento, era nell’aria. Troppo intasati i calendari di Montecitorio e palazzo Madama, troppo azzardato il passaggio in commissione Vigilanza per il via libera alla presidenza, per cui servono i due terzi dei voti. E un accordo in due tempi – subito l’elezione dei consiglieri, a settembre la ratifica della presidente – a Forza Italia, che vuole issare Simona Agnes sulla poltrona più alta di viale Mazzini, non sarebbe mai andato bene.
Anzi, gli azzurri fin dalla mattinata attribuivano l’appuntamento di Antonio Tajani con Meloni e Matteo Salvini alla fantasia dei cronisti, ed effettivamente nel pomeriggio si è diffusa la notizia del nulla di fatto. Intanto a viale Mazzini il tempo sembra non passa mai. L’attesa di due mesi ha logorato quello che nei pensieri di Meloni era l’ad in pectore, Giampaolo Rossi. I palinsesti per la prossima stagione sono chiusi, in Rai non c’è più granché da fare e il tempo che il direttore generale, grande appassionato del fitness, passa in palestra si allunga di pari passo con la durata delle elefantiache trattative politiche che determineranno il suo destino.
Al settimo piano invece stanno come il sottotenente Drogo nel Deserto dei tartari, in attesa di una decisione che continua a non arrivare. Un po’ di malessere per quest’attesa inizia a farsi largo anche tra i più fedeli dei colonnelli meloniani, ma la fiducia nella premier resta granitica. A forzare la mano, è il ragionamento, la premier rischia di aprire un vaso di Pandora su una serie di altre questioni.
«Solo che a settembre è un altro film, per tutti». Perfino nel partito della premier non si sentono di escludere colpi di scena quando, ai primi di settembre, riprenderà la trattativa. Insomma, anche i nomi che sembravano certi potrebbero essere ridiscussi. Ma intanto, si lavora a una strategia per chiudere con gli alleati.
La trattativa
E allora, a palazzo Chigi ragionano di una soluzione in due step: primo passo, trovare l’accordo con la Lega. Dovrebbe essere il passaggio più semplice perché, nonostante i capricci di Matteo Salvini e dei suoi, punzecchiati a intervalli regolari dal sottosegretario alla presidenza Alessandro Morelli, plenipotenziario della Lega sul dossier, l’accordo è a portata di mano. I salviniani non hanno mai cambiato idea: vogliono un direttore generale in quota, che sia Marco Cunsolo o Maurizio Fattaccio. O ancora, in extremis, Roberto Sergio, tornato da Parigi, dove ha incontrato la premier, carico di speranze. Intanto, l’attivissimo ad uscente fa involontariamente un favore alla Lega con ogni giorno che passa: rimanendo sulla sua poltrona, infatti, ne tiene lontano Rossi.
Tra qualche giorno poi diventeranno effettive le dimissioni di Marinella Soldi, e dal 10 agosto Sergio, consigliere anziano, sarà anche presidente. Una regola che i dirigenti della Lega tengono ben presente: considerato infatti l’impasse della maggioranza sull’elezione del o della presidente, Salvini sa bene che in caso di vacatio Antonio Marano avrebbe molte più possibilità di Alessandro Casarin di essere il consigliere anziano. Nato a febbraio del 1956 è più grande anche di Antonio Di Bella, nome attribuito a più riprese come carta coperta al Pd, nato a marzo dello stesso anno.
«Una volta che ci si siede a un tavolo l’accordo con la Lega si trova» dicono fiduciosi da via della Scrofa, ma a preoccupare molto di più Meloni è il secondo step, la scelta della presidenza. Ad Agnes manca ancora un appoggio sufficiente in commissione Vigilanza. La trattativa con Iv – che ha due voti, quelli che servirebbero per raggiungere quota 28 insieme a Mariastella Gelmini di Azione e Dieter Steger della Svp – è ancora di là dal venire, mentre Pd e M5s hanno già fatto sapere di non essere interessati a una collaborazione a meno che il centrodestra non proponga un nome di garanzia. In alternativa, dem e contiani rilanciano la riforma della legge della governance: «Sono passati due mesi da quando i vertici sono scaduti, ci fosse stata l’intesa una nuova legge l’avremmo già approvata» è il ragionamento.
Anche perché un nuovo testo prima o poi servirà: entro agosto 2025 la legge va infatti adeguata alle linee guida europee definite dall’Emfa, altrimenti l’Italia rischia una procedura d’infrazione da parte di Bruxelles. E con una nuova legge, continuano dalle opposizioni, serviranno anche nuovi vertici: un’altra tegola su un cda che ha già davanti a sé un percorso accidentato. Il consiglio entrerebbe infatti in carica in prossimità dello sciopero dei dipendenti del 23 settembre e a poche settimane dal pronunciamento del Tar sul ricorso dei candidati consiglieri, in calendario per il 23 ottobre.
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