Il cavallo di viale Mazzini muore ogni giorno un po’ di più. Non è dato conoscere il pensiero del quadrupede sul nuovo Consiglio d’amministrazione della Rai, ma ne ha viste passare tante dal 1966, quando ha preso posto all’ingresso del palazzo che ospita i vertici della televisione pubblica e gli fu riattaccata la coda, mozzata temporaneamente per facilitare il trasporto. Ha visto anche tanti leader cadere, su viale Mazzini.

E non fanno eccezione nomi che hanno saputo lasciare un segno, come Matteo Renzi e Mario Draghi, che ha dato al suo amministratore delegato dell’epoca, Carlo Fuortes, il via libera per aprire una trattativa con Fratelli d’Italia. La prima conquista del partito di Giorgia Meloni era stata – ironia della sorte – la direzione di Rainews affidata a Paolo Petrecca, un vicedirettore nominato da Antonio Di Bella fino a quel momento piuttosto marginale nell’universo Rai. Era il 2021, sembrano passate ère geologiche. Petrecca, passato da pedina della lottizzazione Rai a colonnello meloniano a pieno titolo, sedeva in prima fila alla presentazione di giovedì scorso del libro di Monica Maggioni, allora alla direzione del Tg1, oggi direttrice dell’offerta informativa.

Il direttore di Rainews è uno dei simboli della destra di viale Mazzini che ce l’ha fatta, che si è liberata, almeno in parte, dello stigma del passato e ha conquistato una plancia di comando che in altre epoche non avrebbe visto neanche da lontano, se non per le piccole concessioni che il resto dell’arco parlamentare si sentiva di fare di tanto in tanto.

Ora sono ovunque, entrano nei programmi, dettano scalette e hanno perfino un sindacato. Litigano tra loro per il favore di palazzo Chigi, devono sventare le insidie di leghisti e forzisti. Ma a vincere sono stati soprattutto loro. Giampaolo Rossi, il “Bussola” che secondo Fabio Rampelli alla Sapienza sbagliava continuamente strada, ha avuto la sua poltrona di ad dopo che, nel 2021, per i conti sbagliati di Meloni, non era entrato nemmeno in Cda. Ha vinto anche Roberto Sergio, che dopo aver fatto tribolare per mesi la destra si è guadagnato il soprannome di “tarantolato” e anche l’incarico di direttore generale.

La staffetta alla fine è andata in porto, peraltro con l’ex democristiano ufficialmente in quota sé stesso: la Lega se lo intesta, anzi no, o forse solo quando serve. Nel dubbio i due si passeranno il testimone sabato prossimo, alla celebrazione dei cent’anni del servizio pubblico, primo grande palco del nuovo ad, molto meno a suo agio al centro dell’attenzione rispetto al suo ipertrofico predecessore.

Campagna d’autunno

Ma mentre si programmano i brindisi al palazzo dei Congressi, la Lega prepara la campagna d’autunno. L’elezione di Antonio Marano in Cda è un successo del sottosegretario Alessandro Morelli sulla cordata più moderata che faceva riferimento a Igor De Biasio e proponeva Alessandro Casarin. Chi a Saxa Rubra, via Teulada e via Asiago si riconosce nella fede leghista si sta già riposizionando su una linea più dura.

D’altra parte Morelli è un falco e ha fatto mandare giù una serie non indifferente di rospi a Francesco Pionati, il direttore di Radio 1 ex demitiano oggi leghista, a partire dall’inenarrabile Marcello Foa, prontamente rinnovato per meriti non del tutto chiari. Se nel palinsesto radiofonico non si registrano troppi cambiamenti, i leghisti contano di mantenere anche la guida della Tgr, corazzata più grande dell’informazione Rai con 24 testate e ottocento giornalisti. Casarin scade a novembre, gli aspiranti successori sono già al lavoro: sempre in area leghista c’è Roberto Pacchetti, ma non è escluso che FdI accampi pretese, anche considerata la probabile presidenza ad interim di Marano e la quota semi-leghista di Sergio.

Il partito di Matteo Salvini spera di poter guadagnare spazio anche nell’organigramma e nei programmi. Che sia alla direzione Cultura – con un trasloco di Fabrizio Zappi – oppure ottenendo qualcosa tra Day time e Approfondimenti. I nomi in corsa sono i soliti: da Angela Mariella a Milo Infante, passando per Francesco Giorgino, tornato in Rai grazie alla Lega ma fermo, per il momento, al centro studi.

Significherebbe scippare uno dei due posti chiave ai meloniani, non tanto disposti a mollare le loro direzioni. Angelo Mellone è il vero intellettuale d’area – Storia di una notte, tratto dal suo romanzo Nelle migliori famiglie, sarà presentato alla Festa del cinema di Roma, timbro che certifica che si è arrivati tra quelli che contano – ma Paolo Corsini ha un filo diretto con la premier.

Certo, il suo incarico è più complesso, deve battagliare tutti i giorni con pesi massimi come Bruno Vespa, Sigfrido Ranucci e Riccardo Iacona, ottenendo in genere ben poco. Più facile intervenire sulla boa del mattino di Rai 3, Agorà, conquistata con l’imposizione di Roberto Inciocchi e scavata dall’interno, giorno dopo giorno, con richieste e proposte che non si possono rifiutare. È un bottino succoso, un programma che ospita quindici persone al giorno e in tanti blocchi diversi ha lo spazio per parlare di Bonus casa qui e ddl Sicurezza di là. Tanti favori da fare, tanti crediti da vantare.

Durante la sua prima stagione Inciocchi è riuscito a mantenere un equilibrio con la redazione, ma la scorsa estate Giovanni Alibrandi, il vicedirettore che ha sostituito temporaneamente Federico Zurzolo come dirigente di riferimento del programma e nonostante la militanza nera di gioventù è considerato in quota Lega, ha avuto tutt’altro stile.

«Ha fatto carne di porco», dicono perfino da destra. Il riferimento è a una serie di rubriche che con lo stile Agorà avevano poco a che vedere mentre servivano a dare luce soprattutto a chi le conduceva. L’edizione invernale per il momento è legata direttamente al rugbista più famoso di viale Mazzini. O, in altre parole, è in autogestione, visto che Corsini ha altre gatte da pelare. Non è detto però che la Lega non ci abbia fatto la bocca e voglia ottenere più spazio per Alibrandi.

L’altra scommessa di Corsini – l’ha detto anche alla presentazione dei palinsesti – è L’altra Italia di Antonino Monteleone, che «ha avuto tutto quello che chiedeva» ma che non è ben chiaro che programma abbia in mente. Chi invece ce l’ha e l’ha mostrata senza infamia e senza lode l’anno scorso è Salvo Sottile, confinato al venerdì sera in una posizione impossibile, vittima degli incastri della direzione Approfondimenti, che l’ha sacrificato al figliol prodigo Massimo Giletti. Che però resta fuori dalla portata (per ora) della destra, avendo firmato con la direzione Cultura.

Vittoria stellare

Proprio per la conduzione di Agorà (extra) è transitato un nome su cui dalle parti di via del M5s, ultimamente, si fanno parecchi ragionamenti: Senio Bonini. Con la partecipazione al voto per l’elezione dei consiglieri d’amministrazione, Giuseppe Conte per una volta è stato coerente con sé stesso quando, un anno fa, aveva deciso che TeleMeloni tutto sommato avrebbe potuto essergli utile. I grillini hanno imparato presto a cavalcare le logiche della lottizzazione e per un ruolo di rilievo nel servizio pubblico sono stati pronti ad accettare una drammatica deflagrazione del campo largo.

Hanno vinto anche loro, pronti a esercitare il loro potere di «vigilanza e controllo», possibilmente dalla poltrona di una direzione di Rainews o del Tg3, a seconda dell’atteggiamento che il M5s terrà in Vigilanza quando si tratterà di votare Simona Agnes presidente.

L’importante, in questa fase polemica di Conte nei confronti di Elly Schlein, è che si porti a casa qualcosa in più del Pd. Un obiettivo che non dovrebbe essere troppo difficile da raggiungere, visto che la segretaria ha deciso da sé di tagliare il cordone ombelicale con la Rai decidendo di non partecipare al voto per i consiglieri. «E chi sta in azienda e sull’Aventino non ci può andare?» si chiedono perplessi dirigenti e dipendenti di centrosinistra che ora dovranno rivolgersi a Roberto Natale – riconosciuto come un punto di riferimento della sinistra ma, a dispetto della sua carriera nel sindacato Usigrai, di indole poco incline allo scontro diretto – e Alessandro di Majo, che nell’anno passato si è segnalato più per la sua presenza agli eventi aziendali che per i suoi voti contrari alla maggioranza (sulle questioni che contano come contratto di servizio ed esuberi, nessuno).

E poi c’è Mario Orfeo, un altro più in quota sé stesso che attribuibile a qualunque partito, soprattutto alla segreteria Schlein. Anche se a taccuini chiusi il Pd promette di dare battaglia se qualcuno (leggi Conte) dovesse provare a insidiare il Tg3, alcuni di quelli che fino a giovedì avevano rapporti quotidiani con l’azienda (e ora giurano di non riconoscerla nemmeno quando ci passano davanti) sono parecchio preoccupati dall’appetito degli ex alleati. «Questi si pigliano tutto, pure il Tg3. E noi non abbiamo modo di difenderlo».

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