La settimana parlamentare si è aperta con la fumata nera per l’elezione del quindicesimo giudice costituzionale e si chiude con la rissa finita ad avvocati tra il presidente del Senato, Ignazio La Russa e il leader di Italia Viva, Matteo Renzi.

Oggetto dello scontro: la senatrice Dafne Musolino ha rivelato di essere stata avvicinata da La Russa, che avrebbe tentato di convincerla a passare con la maggioranza; il diretto interessato attraverso il suo portavoce ha negato parlando di menzogne e Renzi ha dato mandato ai suoi legali di procedere in sede civile per le espressioni «false e diffamatorie» a lui rivolte.

Al netto delle schermaglie, nessuno degli addendi dell’equazione per eleggere il giudice della Consulta è cambiato. Fratelli d’Italia è fermo sul nome di Francesco Saverio Marini, l’opposizione auspica dialogo ma per sbloccare la situazione servirebbe una rosa di profili che per ora la maggioranza non intende fare. L’unico passo concreto è stato del leader di Azione, Carlo Calenda, secondo cui «l’Aventino non può essere un sistema di opposizione» e, nel chiarire che «non voteremo mai un nome proposto dal governo senza accordo», ha chiesto di sedersi al tavolo delle trattative.

I rischi

Eppure, fino al 21 dicembre il funzionamento della Corte non è a rischio. In bilico sarà solo dopo che finiranno il loro novennato altri tre giudici di nomina parlamentare: a quel punto il collegio sarebbe di 12 giudici e basterebbe che solo uno fosse malato per paralizzare i lavori. La legge istitutiva dell’organo prevede infatti che la Corte possa funzionare con l’intervento di almeno 11 giudici.

La data cerchiata in rosso però è quella del 12 novembre, quando il presidente Augusto Barbera (tra i tre in scadenza a dicembre) ha fissato la discussione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate da Puglia, Toscana, Sardegna e Campania contro la riforma dell’autonomia differenziata.

Questo avrebbe giustificato il tentato blitz della maggioranza a nominare un giudice costituzionale per avere in Corte occhi e orecchie. Seppure è improprio – almeno formalmente – attribuire etichette politiche ai giudici, anche da eletto Marini (che di Giorgia Meloni è attuale consigliere giuridico) non potrebbe comunque essere più di una sentinella: la Corte, infatti decide in in modo collegiale ed è strutturata per non avere maggioranze politiche, visto che solo cinque giudici su 15 sono indicati dal parlamento.

Il governo è deciso a procedere con voti a oltranza ma, qualora non dovesse riuscire entro la data del 12 novembre, con tutta probabilità si arriverà a dicembre con l’elezione a pacchetto delle quattro toghe a quel punto mancanti.

Anche in questo caso le date e i tecnicismi non aiutano il governo. Il 21 dicembre si sarà in piena sessione di bilancio, dunque sarà complicato fermare l’aula per votare i quattro giudici. Col risultato che il parlamento in seduta comune potrebbe slittare ai primi di gennaio. Inoltre, se per uno la maggioranza qualificata sarà dei tre quinti, per gli altri tre in scadenza a dicembre servirà la maggioranza addirittura dei due terzi per le prime due votazioni. Risultato: o sul “pacchetto” sarà stato trovato un accordo ampio con le opposizioni, oppure la fumata nera potrebbe andare avanti ancora a oltranza mettendo allora sì a rischio la funzionalità della Consulta.

La terza scadenza rilevante è quella del 20 gennaio. Entro quella data, infatti, è previsto che la Consulta decida sull’ammissibilità dei quesiti referendari e in particolare su quello che più sta a cuore alla maggioranza: quello sull’autonomia. E, se non si sblocca il dialogo tra maggioranza e opposizione, è possibile che la nomina dei quattro giudici scelti dal parlamento per quella data non ci sia ancora.

Fonti costituzionali, tuttavia, suggeriscono una mossa alla maggioranza per evitare che la nomina dei tre giudici cada in sessione di bilancio e dunque finisca rinviata: è possibile infatti procedere al voto sui tre giudici in scadenza già entro un mese prima della data, e quindi dal 21 novembre, scegliendo i sostituti che giureranno nel giorno del “pensionamento” degli uscenti.

Così ha fatto spesso il Quirinale, l’ultima volta nel 2023, quando ha nominato Giovanni Pitruzzella e Antonella Sciarrone Alibrandi il 10 novembre, il giorno prima della scadenza di Daria De Pretis e Nicolò Zanon. La strada, però, è impervia e passa ovviamente per un accordo con le opposizioni.

Il referendum

Intanto si riflette sul quesito referendario in materia di autonomia differenziata. Voci del mondo del diritto Costituzionale evidenziano come la giurisprudenza della Consulta sia orientata a bocciare il quesito abrogativo in toto della riforma dell’autonomia.

Tre le ragioni: il quesito deve essere «omogeneo», mentre in questo caso – occupandosi la legge di molte materie – una totale abrogazione non rispetterebbe il requisito; essendo poi la legge sull’autonomia collegata alla legge di Bilancio, un referendum sarebbe inammissibile; infine, secondo il ministro Roberto Calderoli, la legge sull’autonomia dà applicazione alla Costituzione, quindi «costituzionalmente necessaria» e dunque non sottoponibile a referendum.

Tutte obiezioni che fanno propendere per una inammissibilità del quesito totalmente abrogativo, ma che sono astrattamente aggirabili per gli altri quesiti di abrogazione depositati, che riguardano soltanto una specifica porzione della riforma. Proprio questo tiene sulle spine il governo. Certo evitare un quesito di abrogazione totale tranquillizzerebbe la Lega, ma un referendum – anche di abrogazione solo parziale - si trasformerebbe comunque in un tagliando politico sull’operato del governo.

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