- Le partite interne, oltre i prevedili risultati degli schieramenti: al Nord quella di Fdi sulla Lega, al centro quella tutta interna a Fdi, dopo lo sfortunato commissariamento dei rampelliani da parte di Donzelli, che ha infognato il governo nel caso Cospito.
- In Lombardia il Terzo polo gioca nelle migliori condizioni con Letizia Moratti. Ma se l’ex berlusconiana non riuscirà a battere Majorino, dipinto come un sinistrissimo, la spinta propulsiva di Calenda rischia di esaurirsi. Di fronte al principio di realtà.
- Nel Lazio Conte cerca di acciuffare il Pd. E invece D’Amato deve arrivare a quota 32,5: che è quanto ha preso Zingaretti. Per dimostrare di essere stato il candidato giusto.
All’ombra dei numeri dei vincitori del voto regionale di oggi e domani in Lombardia e Lazio, ci saranno dei numeretti da tenere d’occhio.
Si troveranno sparsi nelle liste degli schieramenti in entrambe le regioni, dove votano oltre 12 milioni di cittadini (oltre 8 in Lombardia e oltre 4 nel Lazio), e dove la prima incognita è l’affluenza (nel 2018 fu rispettivamente 73,1 e 66,5).
Al netto di miracolosi stravolgimenti dei pronostici sui vincitori, saranno quelle cifre di dettaglio a raccontare lo stato di salute degli schieramenti. Regione per regione, partito per partito.
Vecchia Fiamma vs Lega
In Lombardia il leghista uscente Attilio Fontana è il favorito. Ma è un vaso di coccio nella sfida fra Lega e Fratelli d’Italia. Al di là delle grandi città, nei medi e piccoli centri la marea montante della destra è un fenomeno palpabile.
Nel 2018 la Lega ha preso il 29 per cento, Forza Italia il 14. E Fdi il 3,6: ma oggi, con la moltiplicazione dei suoi voti, gli equilibri politici stanno per saltare. Con ripercussioni anche a Roma. In Regione Fdi è la vecchia fiamma che punta sui dinosauri ex missini: gli ex assessori Romano La Russa e Riccardo De Corato.
Anche perché i “giovani” sono stati azzoppati (come Carlo Fidanza, un’inchiesta per corruzione con richiesta di archiviazione, un’altra ancora in corso) o allontanati (Viviana Beccalossi ha lasciato su posizioni federaliste).
I mondi della sanità privata tradizionalmente vicini alla Compagnia delle Opere e ai moderati accolgono i nuovi comandanti. Forza Italia è particolarmente inguaiata: è uscita malconcia dallo scontro che ha visto accompagnare all’uscita gli uomini Maria Stella Gelmini, sostituita con Licia Ronzulli, e poi passata con Carlo Calenda. Ha subito anche l’attivismo della ministra Daniela Santanché, che sgomita per ritagliarsi uno spazio nel suo nuovo partito meloniano.
Calenda, se Moratti non va
Nello schieramento democratico della Lombardia corre da presidente Pierfrancesco Majorino, area sinistra Pd tendenza Schlein, per il centrosinistra e M5s. Sulla corsa pesa la coincidenza temporale con un nuovo arresto di un parlamentare dem per la vicenda Qatar Gate, Andrea Cozzolino.
Nel 2018 la coalizione prese il 26,99 per cento (la guidava Giorgio Gori, che al congresso è schierato con Stefano Bonaccini), e i grillini il 18. Ma nel frattempo per gli uni e gli altri c’è stato un cataclisma: la rottura con Renzi e Calenda per il centrosinistra, e la sconfitta nazionale; e il crollo dei consensi per M5s.
Il Terzo polo si gioca una partita vera: la Lombardia è il territorio di maggior vantaggio per il leader di Azione, che è saltato sul carro della candidatura di Letizia Moratti. Per lei ha rotto con il Pd e provato a portarsi con sé l’area riformista ex renziana (perplessa sul nome di Majorino, “concesso” senza combattere perché la partita era data per persa).
Moratti è la candidata ideale per svuotare Forza Italia, che è l’obiettivo strategico della formazione liberal-renziana. Ma se l’ex vice di Fontana ed ex ministra berlusconiana non riuscirà a battere Majorino, descritto come un minoritario sinistrissimo, la spinta propulsiva del Terzo polo rischia di esaurirsi di fronte al principio di realtà.
Meloni pesa Rampelli
Francesco Rocca, ex presidente di Croce rossa italiana, nonché referente della sanità privata, candidato della destra nel Lazio, è favorito da tutti i sondaggi. Gli stessi che, almeno finché era consentito renderli pubblici, hanno segnalato la sua lenta ma costante flessione nel corso della campagna elettorale.
Colpa di qualche competenza incerta, delle fughe dal confronto con gli sfidanti, di una antica condanna per spaccio e una recentissima lite familiare a mezzo stampa. Tutte cose che non ne hanno rafforzato l’immagine, insieme all’imbarcata di vecchi attrezzi dell’era di Francesco Storace.
Nel 2018 Fdi qui aveva preso il 9 per cento, Fi il 14, la Lega il 10. La coalizione il 36,3 sotto la guida di Stefano Parisi (31,1), manager e viandante ad alta velocità della politica, già candidato a Milano.Alle scorse politiche le destre hanno preso il 44,8 per cento. Come in Lombardia, il risultato regionale segnerà il ribaltamento dei rapporti di forza interni a vantaggio di Fdi. Ma non è detto che la crescita sia indolore.
Meloni e la sua centuria laziale – al comando del cognato Francesco Lollobrigida – hanno preferito l’incolore Rocca al verò papà politico della “nuova Giorgia”, cioè Fabio Rampelli, uomo forte e candidato naturale alla presidenza.
Non paghi, in campagna elettorale hanno anche commissariato la federazione romana, accusando il segretario Massimo Milani di favorire i candidati rampelliani Fabrizio Ghera e Marika Rotondi. Il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi. Come commissario Meloni ha scelto l’incontinente verbale Giovanni Donzelli: dopo poche settimane il deputato toscano si è infognato nel caso Cospito, inguaiando la maggioranza e il governo. Alle preferenze di Fdi, insomma, l’ardua sentenza: se Meloni&Lollobrigida riusciranno a domare chi non bacia la pantofola.
Conte, D’Amato e quota 32
La sfida più in superficie nel Lazio è fra Pd e M5s. Qui la rottura era scritta sin dalla fine dell’asse giallorosso e del governo Draghi. Il termovalorizzatore imposto dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri è il casus belli.
Così come l’accelerazione di Carlo Calenda sul nome di Alessio D’Amato, stimato assessore alla sanità, eroe dei giorni del Covid. Che ha costretto a un disciplinato – ed elegante – passo indietro il papabile candidato della vecchia coalizione giallorossa Daniele Leodori (centrista, attuale reggente della regione al posto di Nicola Zingaretti).
Giuseppe Conte punta a superare il Pd, o almeno stargli sulla ruota. Per la volata delle europee del 2024, dove l’elezione proporzionale stabilirà chi è il partito più forte del futuro centrosinistra.
Per rimpolpare il risultato ha cercato un candidato di sinistra. Senza riuscirsi: alla fine ha ripiegato su Donatella Bianchi, ambientalista e giornalista Rai di buona notorietà. E, per la prima volta, è uscito dalla sindrome dell’autosufficienza e si è alleato alla lista Polo progressista, zeppa di personalità della sinistra e del sindacato. Al comizio di chiusura della campagna, gli è riuscito anche il colpaccio di far salire sul palco Luciana Castellina, fondatrice del manifesto e icona della sinistra radicale.
D’Amato però nell’ultima settimana ha martellato sul voto disgiunto, spiegando che se arriva terza, Bianchi non entrerà neanche in consiglio regionale. A sua volta, a casa sua, D’Amato deve almeno arrivare a quota 32,5: che è quanto ha preso alla seconda elezione Zingaretti. Per dimostrare di essere stato il candidato giusto. E per restare alla guida della coalizione, in asse con Gualtieri (suo grande elettore) e con Calenda (che si appresta a entrare in giunta a Roma).
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