La discussione sull’opportunità che Matteo Renzi stia o meno dentro il campo largo non sembra placarsi. Eppure, per quanto possibile, bisognerebbe discutere molto meno di Renzi e molto di più del significato politico del campo largo. Non solo perché, dal punto di vista soggettivo, la vicenda del ritorno del figliol prodigo Renzi all’interno del campo largo ha pochi margini di discussione: non c’è dubbio che Renzi abbia delle responsabilità irrevocabili nel declino della credibilità del centro sinistra; che la sua cultura politica appartenga all’alveo del governo neoliberale; che la sua figura personale sia palesemente viziata da enormi conflitti d’interesse e da un narcisismo patologico che viene esibito e non certo mimetizzato.

Il punto vero è che non si può portare avanti un processo di costruzione politica solo sulla base di simpatie o veti personali, ma sulla base di accordi chiari su contenuti politici concordati. Uno dei cambi di paradigma che la sinistra dovrebbe assumere su di sé è precisamente quello di riportare l’ordine egemonico del discorso politico dalla democrazia personale alla democrazia politica. La prima, che riduce tutto a nomi e persone, ci sta portando direttamente verso la riforma del premierato. La seconda invece prende sul serio la crisi della rappresentanza provando a ricostruire un tessuto fatto di soggetti collettivi orientati da comuni elaborazioni politiche. Ma in realtà, le cose sono un po' più complicate dell’ennesimo referendum pro o contro Renzi e anche la discussione degli ultimi giorni lo dimostra.

Utopia

Nelle posizioni che sostengono la necessità di un campo contro la destra allargato persino a Renzi credo si possa riconoscere una tentazione profonda che condiziona periodicamente la stessa identità della sinistra. Si potrebbe definire questo aspetto come una tensione sempre più evidente tra il principio politico del realismo e quello dell’utopia.

Ora, nella mia ricostruzione della crisi della sinistra ho pochi dubbi sul fatto che una delle sue cause sia l’oblio di ogni contenuto utopico a causa di un privilegio iper-realista che negli ultimi decenni si è imposto. Per questo eccesso di realismo la sinistra ha recentemente scelto di riorganizzarsi a partire da due compiti residui che le rimangono.

Da un lato il compito di rallentare la catastrofe che, sotto varie forme, è sempre imminente. Anche il campo largo sempre rispondere a tale urgenza: di fronte al pericolo del governo più minaccioso della storia della Repubblica, dobbiamo unire tutte le forze per arginare l’ennesima catastrofe a portata di mano. C’è un rapporto diretto tra il cedimento culturale di tanti intellettuali organici che hanno tradito Marx e abbracciato Schmitt e la nostra coazione a ripetere che da decenni (Berlusconi ha contribuito non poco) non fa altro che costruire grandi fronti popolari uniti solo dalla stessa paura nei confronti dell’apocalisse.

Dall’altro lato il compito che la sinistra ritiene di dover esercitare è quello di contendere efficacemente il potere, trovando i modi per “prenderlo” (i governi di larghe intese) o per rallentare la presa del potere degli altri. Il risultato è che l’unica sinistra credibile che si può costruire è una sinistra vincente.

Mi verrebbe da dire che anche nel caso del campo largo, il codice binario che definisce il progetto si muove sui due estremi dell’essere vincente o perdente. Non c’è altro che conti. Tutto si può accettare – persino ingoiare il rospo Renzi – a condizione di risultare vincenti, cioè di prendere il potere o rallentare quello degli altri. Sono certo che buona parte dei lettori siano d’accordo con questo codice binario, che è precisamente l’effetto di un iperrealismo politico.

Intendiamoci, il potere è parte consustanziale della politica moderna e una sinistra velleitaria non ha più molto senso. La testimonianza è una nobilissima categoria della morale, non della politica. Ma il potere ha più forme. Su questo si gioca una delle grandi differenze tra destra e sinistra. Per la prima il potere è ciò che permette di consolidare la contingenza del presente, non a contestarla. Le cose sono come sono e la politica non è che il cane da guardia del presente. Per la seconda il potere ha una funzione emancipativa: non si tratta di stare nel presente, ma di dichiararsene insoddisfatti e di mobilitarsi per cambiarlo. Ma come si fa a cambiarlo, se non si attinge a una riserva di utopia? È questa utopia ad alimentare il fuoco politico che permetterebbe alla sinistra di rinascere dalle ceneri.

La fretta

Che cosa rimane di questa esigenza dell’utopia, nell’evocazione del campo largo? Non dirò che non rimane nulla. Nonostante il realismo che ci fa evocare Renzi, il tentativo di ricondurre la discussione ai suoi contenuti politici contiene in sé una minima funzione utopica, il tentativo di spostare il discorso un passo più in là di ciò che c’è adesso. 

Ma quest’utopia – affidata all’essenziale elenco delle cose che potrebbero essere in comune tra i partecipanti al campo largo – è così minimale che non appartiene più a una “storia del futuro”, come scrive in un saggio molto utile Gianluca Bonaiuti (Una teoria politica della finzione, 2023). Introiettando un’eredità del sessantotto, la sinistra sembra farsi prendere dalla fretta. Il nostro unico imperativo politico è: cambiare le cose, ma cambiarle il prima possibile, prima che accada l’irreparabile.

Scrive Bonaiuti: «Non era più al futuro come dimensione temporale dell’altrove che si rinviava, ma al domani che si trattava di instaurare oggi». Ho l’impressione che queste parole – che si riferiscono al sessantotto – spieghino molto di più di ogni ragione personale ciò che è in gioco nella discussione sul campo largo. La crisi della sinistra sta nella coazione a ripetere che spegne l’esigenza di emancipazione riducendola all’impazienza di un domani che deve avvenire già oggi, per scongiurare la catastrofe.

Invece, io credo che non vi potrà essere una sinistra credibile che non appartenga alla storia del futuro, imparando a non reagire alla fretta che il presente, ogni volta di nuovo, sembra imporci. La questione fondamentale non è dunque se Renzi ci sarà o meno, ma a quale storia apparterrà il campo largo: alla storia del futuro o a quella immediata che finisce per far fallire ogni volta tutti i cantieri della sinistra?

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