A Strasburgo di nuovo la maggioranza del governo italiano si fa in tre. Il voto era delicato, anzi delicatissimo, quello sul Rapporto sulla politica di difesa e di sicurezza comune 2024, un documento sterminato, con 162 punti, nei quali sono contenute le «raccomandazioni riguardo alle principali linee d’azione per rafforzare in futuro le politiche e le azioni in vari ambiti, tra cui i progressi istituzionali in materia decisionale, lo sviluppo congiunto delle capacità militari e in termini di armamenti nonché i mezzi per finanziarle».

In particolare, nel testo viene accolto «con favore il piano ReArm Europe proposto il 4 marzo 2025 dalla presidente della Commissione». Si parla di «un aumento significativo degli investimenti in ricerca e sviluppo nel settore della difesa, con particolare attenzione alle iniziative di collaborazione, così da rafforzare la leadership dell’Ue in ambito tecnologico e la sua competitività nel settore della difesa». E, infine, fra le considerazioni dà per scontato l’aumento delle «spese destinate a una difesa migliore e più intelligente», visto che – sono citazioni letterali – «un numero crescente di esperti ritiene necessario fissare un obiettivo in materia di investimenti nel settore della difesa pari al 3 per cento del Pil, alla luce della minaccia diretta che la Russia rappresenta per l’Ue e i suoi Stati membri».

La maggioranza italiana si sbriciola, ancora una volta: questa volta Forza Italia vota sì, Fratelli d’Italia si astiene, la Lega vota no. Morale: è passata una manciata di giorni da quando Giorgia Meloni ha accusato il Pd di essere una «comunità hippie demilitarizzata», e viene certificata l’evidenza che sull’idea di difesa europea, della Commissione e del parlamento, il governo italiano è spaccato in tre spicchi. Come era chiaro dall’inizio, solo FI segue la presidente Ursula von der Leyen.

«Destre divise»

Va detto che nello schieramento opposto le cose vanno più o meno nella stessa maniera: Sinistra italiana, Verdi e M5s votano no, invece il Pd vota sì alla risoluzione complessiva, quasi compattamente – votano diversamente solo gli indipendenti Cecilia Strada e Marco Tarquinio, un no e un’astensione – ma nei singoli voti per la maggioranza vota no al piano di riarmo e all’aumento delle spese militari, che però alla fine restano dentro il testo approvato. Il capodelegazione Nicola Zingaretti stavolta fa un mezzo miracolo: tiene compatto il gruppo Pd e tiene il gruppo sulle stesse posizioni degli altri partiti socialisti.

«Chi manca all’appello in questo momento è chi sta governando l’Italia, che non garantisce nelle sedi istituzionali una voce unica», spiega Zingaretti. «Un governo diviso fa l’Italia più debole», dirà più tardi con i capigruppo di Camera e Senato, Chiara Braga e Francesco Boccia. «Così si ridicolizza l’Italia in un momento decisivo per l’Europa», insiste Brando Benifei, europarlamentare dem. E la sottolineatura della divisione della destra è il refrain di tutte le opposizioni.

Ma anche Sparta non ride. Zingaretti, infatti, non nega che persino la missione di tenere insieme il suo gruppo sia stata delicata (la mediazione finale è arrivata in una riunione ieri mattina): parla infatti di «un dibattito vivace che non dobbiamo nascondere» e di un no al ReArm Eu espresso «nella battaglia emendativa». E conclude: «Credo che la nostra posizione non di testimonianza ma nel processo di radicale critica e di forte attivismo sia una posizione giusta, perché coglie i limiti di quell’impianto e vuole cambiarla in tutti i modi». Stavolta dunque nel Pd niente spaccature plateali, anzi le agenzie titolano che la mediazione interna «tiene».

Scintille dem sul sì al riarmo

Eppure qualche malumore nel partito serpeggia. Dopo il voto, succede che gli esponenti vicini a Elly Schlein intervengono a tamburo battente: denunciano le divisioni della destra e rivendicano il no al riarmo. Alcuni di loro spiegano che si tratta «della linea espressa dalla segretaria», quella della necessità di «radicali cambiamenti» al piano von der Leyen.

Ma qui Picierno, che ha votato sì al riarmo anche lo scorso 13 marzo e ieri ha fatto altrettanto sull’emendamento favorevole – insieme a Giorgio Gori, Elisabetta Gualmini e altri – puntualizza: «Noto una certa tendenza a confondere le acque del dibattito pubblico. Nel testo finale votato dalla delegazione del Pd e da tutto il gruppo dei socialisti c’è ReArm Europe, ed è motivo di grande soddisfazione per la responsabilità dimostrata da parte di tutti». Replica Peppe Provenzano, responsabile Esteri del partito.

Chiede di non «alimentare confusione» nel giorno in cui la destra si frantuma: «Sulla linea di contrarietà ai riarmi nazionali e di impegno per una vera difesa europea abbiamo raggiunto l’unanimità in direzione e nel Parlamento italiano. Le singole distinzioni sul no al ReArm Eu, e le dichiarazioni che le rivendicano, non cambiano una linea che è stata riaffermata anche dalla stragrande maggioranza della delegazione».

Alla segretaria dà una mano Giuseppe Conte, che attacca la risoluzione europea ma “grazia” la leader dem: «La linea del Pd è un affare interno» tuttavia «registra» che Schlein «detta la linea e ha espresso delle posizioni abbastanza simili a quelle nostre». È un modo per stemperare le differenze e un invito a partecipare alla piazza M5s.

Anche se ieri i suoi ieri a Strasburgo hanno alzato il disco rosso e sui suoi social hanno fatto circolare l’immagine dell’emendamento che accoglie i cinque punti del piano von der Leyen. Come loro, stavolta ha fatto il pacifista Marco Tarquinio, indipendente nella delegazione dem: «Il supporto incondizionato al piano di riarmo mi ha impedito di votare a favore».

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