Per le prime ore di scrutinio, le proiezioni raccontano la vittoria di Marco Bucci, candidato presidente della destra; ma i dati reali dicono che c’è anche un’altra storia: quella della prevalenza di Andrea Orlando, candidato del centrosinistra, nella circoscrizione di Genova. In città fra i due c’è uno stacco di oltre dieci punti, quasi quindicimila voti a vantaggio dell’ex ministro.

Fino a oltre metà dello scrutinio il candidato della destra e quello del centrosinistra si sono rincorsi e superati a vicenda. Un testa a testa continuo, in un pugno di voti. Le proiezioni assicurano che sta vincendo Bucci, a lungo i dati del Viminale tengono in testa l’altro, almeno finché il dato del capoluogo riesce a compensare i voti delle province di Savona e Imperia.

Ma alla fine il dato di Genova, comunque si assestino le ultime cifre, misura quanto hanno pesato lo scandalo e le inchieste che hanno travolto la giunta uscente, fino all’arresto del presidente Giovanni Toti, le sue dimissioni, la sua richiesta di patteggiamento. La risposta è: non molto. Hanno pesato solo nel capoluogo, che del resto è stato l’epicentro delle indagini. Hanno pesato invece molto, certamente insieme al maltempo e all’allerta arancione di sabato scorso, nel crollo dell’affluenza: che si ferma al di sotto della metà degli aventi diritto, al 45,9 per cento, contro il 53,42 delle regionali del 2020 e il 50,61 delle recentissime europee.

Nonostante le inchieste

Comunque il terremoto giudiziario non ha pesato quanto i principali leader del centrosinistra avevano sperato, a partire dalla manifestazione del 18 luglio scorso, quando Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli erano saliti sul palco a chiedere le dimissioni di Giovanni Toti, in quei giorni ancora agli arresti domiciliari. C’era Orlando sotto il palco, «disponibile» alla corsa. Ma il sì dei Cinque stelle è arrivato mesi dopo, quasi a scadenza dei termini.

Alla maggioranza dei liguri non ha fatto poi tanta impressione il «sistema Toti», amicissimo di Bucci, né la ricandidatura dell’assessore alla Sanità, Angelo Gratarola, in una regione in cui la spesa privata è di circa 900 euro l’anno per ciascuno, né di uomini e donne molto vicine all’ex presidente. Solo il voto di Genova ha rifiutato Bucci. Ed è un dato da mettere da parte in vista delle future elezioni per chi siederà a palazzo Doria Tursi. Bucci vince nella regione, ma perde nella città dove ha governato per due mandati e quattro anni fa era prevalso al primo turno.

Meloni vince, FdI si svena

Nel testa a testa dello scrutinio all’ultimo voto emerge il profilo di ciascuna coalizione. E la fotografia è nitidissima: la destra tiene, ed è un risultato esaltante vista la partenza tutta in salita. Giorgia Meloni ha scelto il miglior candidato possibile, il sindaco civico stimato dai moderati anche di sinistra (Iv è nella sua giunta a Genova, e anche Carlo Calenda ha speso buone parole pubbliche per lui). Il sindaco che si era schermito fino all’ultimo alla proposta di correre, almeno fino a che la premier non gliel’ha imposta. Il candidato che nell’ultimo mese ha recuperato quasi dieci punti e riportato la coalizione al comando in una partita che sembrava persa a tavolino.

Meloni ha calato il suo nome con piglio autoritario sul tavolo in cui la Lega e a Forza Italia nel frattempo litigavano. Fratelli d’Italia crolla rispetto al 26 per cento delle europee, e così paga un prezzo alla scelta del candidato giusto: si ferma sotto il 15 per cento, un risultato che è un tonfo rispetto al consenso nazionale. Si svena a favore delle tre liste civiche del candidato presidente. Gli alleati Lega e FI tengono, ma quello di Meloni è un esempio chiaro e lampante di leadership sulla coalizione: ha rinunciato agli interessi di partito, per vincere.

Una vittoria a cui dà una grande mano il feudo di Imperia: sono i voti che fanno la differenza. Il consenso schiacciante, oltre il 60 per cento, delle truppe del sindaco Claudio Scajola (pure in una provincia in cui l’astensionismo è record) consegna la vittoria a Bucci, e salva la faccia alla destra.

Schlein fra i nani

La fotografia dell’altro schieramento è altrettanto nitida. Ma è esattamente l’opposto della destra. Il Pd sale vertiginosamente di dieci punti rispetto alle regionali del 2020, si lancia oltre il 28 per cento, accanto a cui va segnalata anche la lista civica di Orlando, che raccoglie intorno al 5 per cento; poi ci sono i rossoverdi, che confermano il dato nazionale, quello europeo e beneficiano anche dell’apporto dell’ex candidato presidente Ferruccio Sansa. Poi però ci sono solo cespugli. I Cinque stelle ballano intorno al 5 per cento (avevano preso il 7,8 alle scorse regionali e il 10,2 alle ultime europee), la lista centrista che ospitava Azione non arriva al 2 per cento.

È la stessa immagine che del resto usciva dal risultato delle europee. La coalizione dunque non c’è: è un colabrodo, per dirla senza giri di parole, dai cui buchi escono i voti di M5s e dei centristi. Un colabrodo che obbliga finalmente al chiarimento i partiti su tutte le questioni che inutilmente, in campagna elettorale, sono state silenziate. Mentre chiudiamo questa pagina, Orlando avrebbe raccolto uno zero virgola di consensi in meno rispetto alle sue liste. La legge elettorale ligure consente il voto disgiunto. Il “civico” Bucci raccoglie uno zero virgola in più delle sue liste, e questo suggerisce che a Orlando sia mancata anche una manciata dei voti moderati della sua coalizione. Ma il candidato ha fatto la sua parte. E il tema, per il centrosinistra, alla fine della prima delle tre campagne regionali di fine anno, è molto più grande di quel pugno di voti per cui manca la vittoria.

La profezia di Renzi

«Questi riusciranno a perdere anche con Toti in galera», era stata la profezia di Renzi pronunciata proprio il 18 luglio, davanti alle immagini di quelli che pensava essere i futuri alleati di Italia viva. Il risultato del Movimento 5 stelle non è all’altezza dei veti che ha imposto Conte a Schlein: ha lasciato sul campo gli elettori che sono stati avviliti dal conflitto con Beppe Grillo, forse ha ceduto qualche voto ai rossoverdi, e qualche elettore all’ex grillino Nicola Morra.

Ma soprattutto il tira e molla di Conte e del M5s ha dimostrato che l’alleanza non è affidabile: a poche ore dalla chiusura delle liste ha imposto la cacciata dei renziani dalla civica in cui si erano già accomodati (considerati reprobi perché sostenitori del sindaco Bucci); poi ha litigato con Grillo per tutta la campagna elettorale; infine ha subito la randellata di Grillo che a urne aperte ha rivendicato il diritto a dichiarare morto il Movimento che ha fondato.

Unire è indispensabile

La coalizione insomma paga la lotta fratricida del congresso interno di M5s, e insieme i diktat che Conte ha imposto contro Italia viva e Renzi. Alimentati, peraltro, dalla formula della segretaria («nessun veto, nessuna polemica») che alla fine è risultata un modo per non affrontare i problemi evidenti posti da un’alleanza fra opposti. Un fascio di temi che con ogni probabilità nelle prossime ore sarà sollevato dall’area riformista del Pd.

Orlando perde di pochissimo, poche migliaia di voti: quel pochissimo potrebbero essere i voti di Renzi («solo Renzi alle Europee ha preso in Liguria 6.500 voti di preferenza. E Paita altri 4.200», ha prontamente ricordato Francesco Bonifazi, di Iv) o quelli persi dal Movimento. Quelli che siano stati, non andavano persi. E questa è una responsabilità in capo a Schlein, se ha l’ambizione di essere la leader della coalizione.

Sta a lei mettere tutti insieme. Tutti i voti e, forse, anche tutti i leader del centrosinistra largo. Nella prova ligure non ce l’ha fatta. E non è una buona premessa per il voto alla regione Umbria, fra meno di un mese, che si presenta con segnali simili a quelli liguri.

Ma, al di là dei test regionali, la vera materia viva di cui parla il voto di ieri sono le future politiche, ancora lontane: fin qui la segretaria del Pd ha funzionato come leader di partito – in Liguria con un candidato di primo livello, però – ma il suo Pd ha vinto nel deserto. È esattamente quello che è successo alle europee, dove ciascuna forza politica correva per sé, ma è esattamente quello che non serve per le future politiche.

© Riproduzione riservata