“Change”, recita lo slogan con cui il laburista Keir Starmer ha stravinto le elezioni inglesi, ma il termine assume un senso diverso di paese in paese. Il cambiamento è la parola che impugna oggi la destra lepenista al secondo turno delle elezioni legislative francesi.

Il cambiamento (di candidato) viene invocato dall'opinione pubblica che circonda i Democratici americani, preoccupati che la fragilità fisica del presidente Joe Biden si trasformi in una crisi di sistema. Il cambiamento riguarda la democrazia, la sua capacità di trovare al suo interno la forza per innovare, portando con sé chi non è rappresentato.

La forza, o la debolezza, di un partito di sinistra si basa su questa capacità. Vale per gli inglesi, per i francesi, per l'Italia dove cammina l'alternativa al governo Meloni attorno al Pd di Elly Schlein.

Letture

Per leggere meglio il secondo turno delle legislative francesi di oggi bisogna leggere il libro di Didier Eribon Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo (L'orma). Il sociologo francese, che già in Ritorno a Reims (Bompiani) aveva descritto il passaggio della classe operaia dalla sinistra comunista alla destra lepenista, racconta gli ultimi mesi di vita di sua madre, morta in una casa di riposo.

Ci sono la solitudine e l'abbandono. C'è un senso di perdita e di lutto. Per il corpo della madre che declina, ma anche per il corpo sociale di cui ha fatto parte. Per l’assenza della politica progressista nei luoghi dove si vive, si invecchia, si muore.

Quando la sinistra ha perso questa rappresentanza popolare l'elettorato si è spostato a destra. Questa verità poco originale è ripetuta dagli osservatori come un mantra quando nelle varie elezioni nazionali vincono i partiti sovranisti, populisti o di estrema destra come il Rassemblement di Marine Le Pen.

Tutti a dire che la destra vince perché la sinistra si è ridotta alla Ztl, salvo poi dimenticarsi la lezione, quando gli stessi commentatori (maschi, anziani, residenti nella Ztl: prima o poi la crisi dell'editoria la spiegheremo così) ricordano che per vincere la sinistra è necessario il centro. Una banalità che nel dibattito italiano prende le generiche forme del riformismo.

Facendo torto, prima di tutto, al riformismo autentico che è cambiamento degli equilibri, redistribuzione delle risorse e dei poteri, con le regole della democrazia di cui ha parlato Sergio Mattarella a Trieste. 

Quel che serve per non abbandonare la metà del Paese che non va a votare, i vulnerabili che sono molti di più dei poveri assoluti (5 milioni e 752mila) o a rischio povertà (13milioni 391mila persone, il 22,8 per cento della popolazione).

La vulnerabilità riguarda la sanità pubblica, la scuola pubblica, la casa, il lavoro, ma anche la fragilità ambientale, la salute mentale, la distanza dai servizi delle aree interne.

L'Italia che c'è ma non si vede sulle prime pagine dei giornali e nei talk in tv e nei dibattiti parlamentari. L'Italia delle disuguaglianze che si vorrebbero allargare con l'autonomia differenziata.

ANSA

La scena italiana

La via italiana all'alternativa di governo, come l'hanno definita Daniela Preziosi e Carlo Trigilia su “Domani” e Massimo Giannini su “Repubblica”, non è all'inglese o alla francese, parte da qui. Nel periodo in cui i conservatori hanno guidato l'Inghilterra, 2010-2024, i riformisti in Italia sono stati al governo dieci anni su 14.

Con formule di ogni tipo: governi tecnici, giallorossi, di larghe intese, di unità nazionale, con Berlusconi, con Alfano, con Conte e con Di Maio, perfino con Salvini. Cosa poteva restare integro di un riformismo esigente, in questo ottovolante che forse vedremo stasera anche in Francia?

In questo decennio italiano non c'è stato il cambiamento, semmai l'adattamento, l'inseguimento delle soluzioni delle destre su lavoro, immigrazione, istituzioni.

Per trovare le riforme bisogna tornare al primo governo di Romano Prodi, o alle lenzuolate di Bersani nel secondo governo Prodi, due governi che avevano vinto le elezioni ma furono uccisi dagli opposti estremismi di sinistra e di centro: prima il tandem Bertinotti-Cossiga, poi la coppia Mastella-Turigliatto.

Per l'alternativa di cui c'è bisogno oggi serve prima di tutto la ricucitura di queste fratture, nella società prima che nei palazzi. «Una democrazia riparativa», l'ha definita il filosofo Michele Nicoletti alla Settimana sociale dei cattolici di Trieste.

Non a caso questa sfida spetta a una generazione nuova (i dati sul voto giovanile dimostrano che è un tentativo apprezzato) che è sicura delle sue convinzioni, che rifiuta di farsi inchiodare negli schemi antichi tipo riformisti e radicali, che non delega a nessuno la rappresentanza.

L'Italia è più avanti degli altri paesi europei. Lo è stata negli anni dell'ascesa delle destre, ma ora lo è anche nella comparsa delle crepe di quella falange. E nella costruzione di un progetto ambizioso di cambiamento.

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