L’accordo «di metodo» c’è, ma per eleggere i prossimi quattro giudici costituzionali serve ancora tempo, e pazienza se il Colle ha espresso severi moniti contro il «vulnus istituzionale». Il Parlamento è convocato giovedì a Montecitorio in seduta comune per il nono voto.

Stavolta i parlamentari avranno due schede: una per il successore di Silvana Sciarra, il cui mandato è finito da un anno, l’altra per i sostituti dei tre giudici in scadenza il 21 dicembre, il presidente Augusto Barbera, e i suoi due vice Franco Modugno e Giulio Prosperetti. Per il primo caso servono ormai solo i tre quinti dell’assemblea, per i secondi ancora i due terzi.

Ma anche stavolta sarà fumata nera. Per allineare i quorum necessari ai quattro, ci vorranno altre due votazioni a vuoto: fin lì nessun nome verrà messo (a rischio) nell’urna, neanche quello di Francesco Saverio Marini, fortissimamente voluto da Meloni: è il padre del premierato e a sua volta figlio di un presidente della Consulta di solida fede di destra.

Una novità c’è: dopo i pali presi dalla maggioranza (che l’ultima volta ha vagheggiato di eleggersi Marini da sola con qualche aiutino, salvo in extremis scoprire di non avere i numeri), stavolta gli sherpa di palazzo Chigi hanno accettato l’invito di Elly Schlein a sedersi a un tavolo a «dialogare» con le opposizioni (leggasi i dem). Per il Pd la partita è in mano al capogruppo del senato Francesco Boccia, in stretto contatto con la segretaria.

Il «dialogo» ha partorito un accordo di metodo. La maggioranza sceglierà due nomi, le opposizioni uno, il quarto sarà un tecnico “condiviso”. Uno dei quattro dovrà essere una donna.

Ma questo complica il busillis. Per la premier Marini è irrinunciabile; per l’altro nome della destra avanza pretese Forza Italia, che ormai si sente seconda forza della coalizione. Il forzista candidato “naturale” è Francesco Paolo Sisto, combattivo penalista barese, viceministro alla Giustizia. Ma Fi non può ritirarlo dal fronte: è la sentinella della separazione delle carriere, con il compito di ricacciare indietro ogni nemico, interno o esterno. Sale dunque il senatore Antonio Zanettin, avvocato, già Csm.

Il tecnico potrebbe avere il curriculum di Roberto Garofoli: sottosegretario di Draghi, segretario generale di Palazzo Chigi con Letta e capo di gabinetto all’Economia con i governi Renzi e Gentiloni. Il che però non rassicura Meloni: da gennaio la Consulta dovrà affrontare alcune questioni politicamente sensibili. E la prima è il vaglio del referendum sull’autonomia differenziata, che Chigi teme come la peste.

A sinistra la partita si presenta più ordinata. Ma è tutta apparenza. L’indicazione del nome spetterebbe al Pd (perché, è il ragionamento, i Cinque stelle hanno già “avuto” il loro uomo nel cda Rai). Conte voterebbe il costituzionalista Andrea Pertici, ai tempi civatiano e che Schlein ha portato con sé nel nuovo Pd. Invece fra i democratici salgono le quote di Massimo Luciani, ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, gradito anche a Luciano Violante.

Ma così manca la giudice. E per il Pd la giudice la deve indicare Fi. Che però recalcitra. In realtà, se rinunciasse a piazzare un famiglio stretto, cartucce ne avrebbe: esclusa la ministra Casellati (Meloni non vuole “cedere” altri ministri, e poi i forzisti hanno già fatto fatica a votarla al Colle), circolano i nomi “d’area” di Ginevra Cerrina Ferroni e Ida Nicotra. Nicotra però è la moglie di Felice Giuffrè, membro laico del Csm in quota Fdi, e la sua elezione attirerebbe a Meloni le consuete accuse di amichettismo. Per riempire le caselle c’è tempo fino a metà dicembre.

Qui però le previsioni divergono: per la destra la partita si chiude a dicembre; al Pd sono scettici. In realtà puntano a spingere il voto “vero” a fine di dicembre. Il che rallenterebbe i tempi dell’insediamento dei nuovi quattro giudici.

Così la Corte scenderebbe a quota 11 membri, soglia minima per prendere decisioni. E hai visto mai che una Corte così composta decida «meglio» sull’autonomia.

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