Molte autorevoli voci si sono levate a favore del governatore Giovanni Toti a partire da quelle di giuristi come Sabino Cassese, Giovanni Fiandaca e Giorgio Spangher unanimi insieme ad altri nel denunciare un possibile e purtroppo non raro eccesso nell’uso della carcerazione preventiva.

Le polemiche sono rifiorite a seguito della decisione del tribunale del riesame di Genova di respingere la richiesta della difesa di revoca degli arresti domiciliari cui Toti è sottoposto.

I giudici genovesi nel provvedimento hanno invero sottolineato un’apparente incongruenza difensiva, e cioè che Toti non abbia impugnato l’originaria ordinanza cautelare rinunciando a contestare in modo diretto e radicale il presupposto fondamentale di ogni misura restrittiva: l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza.

Come sappiamo Toti ha sempre rivendicato a gran voce la correttezza del suo operato sicché l’apparente contraddizione può spiegarsi con l’esigenza per la difesa di non anticipare e scoprire le proprie carte, perfettamente comprensibile ma che indebolisce sotto il profilo tecnico la gamma delle possibili eccezioni alla sussistenza del reato, limitando il confronto per ora al solo profilo detentivo con esclusione di ogni questione sul vizio genetico del provvedimento cautelare.

Quanto alla misura cautelare, pochi ad eccezione di Cassese si sono soffermati oltre che sul profilo della detenzione sulla delicata questione politica che concerne la legittimità della sospensione della funzione politica esercitata dall’indagato.

La volontà popolare

È questo un aspetto estremamente complesso evidenziato dalla stessa legge che al comma 3 dell’art.289 cpp disciplina la misura cautelare della «sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio» che può essere inflitta in luogo di quella detentiva se idonea a garantire le esigenze di prova o evitare la reiterazione del reato .

Ebbene il legislatore, spinto da scrupolo costituzionale e sulla spinta di alcune decisioni della consulta richiamate da Cassese in un parere tecnico di nove pagine in favore di Toti, ha stabilito espressamente che «la misura non si applica agli uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare».

Il richiamo alla volontà popolare non è casuale né inutile: essa costituisce per il legislatore la barriera insormontabile anche per l’esercizio dell’azione della magistratura.

Ciò limitatamente alla fase delle indagini, perché con una delle solite acrobazie logiche il parlamento italiano ha poi nel 2012 stabilito con l’approvazione della legge Severino che tale (parziale) scudo cessi con l’eventuale sentenza di condanna (alla reclusione non inferiore a due anni) già in primo grado con l’automatica decadenza dal ruolo per il pubblico amministratore, nonostante la presunzione di innocenza stesa sino al giudizio di Cassazione.

Solo con un fuggevole richiamo Cassese accenna alla incongruenza che il divieto in questione non si applichi anche per le misure cautelari più gravi, quelle detentive.

Si crea così il rischio di una possibile elusione del principio costituzionale di separazione dei poteri attuato coll’art.289 comma 3 cpp, aggravando in modo ingiustificato le esigenze cautelari a carico dell’imputato.

È un tema questo che richiederebbe forse l’intervento della Consulta che va detto sino ad oggi ha respinto ogni questione di legittimità costituzionale sulla legge Severino e gli automatismi di decadenza dalle cariche pubbliche anche in presenza di condanne non definitive.

E d’altra parte quanto potere si può assegnare alla politica con il rischio di dare vita ad un’autocrazia?

Le “attività ufficiali”

Per capire quanto il tema del conflitto tra politica e magistratura sia assai più vasto dei ristretti confini italici, “si parva licet”, basta guardare al modello più dirompente e tragico che giunge dagli Stati Uniti. Ai primi di luglio la Corte Suprema ha pubblicato l’ennesima rivoluzionaria sentenza proprio in tema dell’immunità del capo del governo per gli atti rientranti nel perimetro delle sue “attività ufficiali” traendo spunto dalle inchieste sulle condotte di Donald Trump durante la sommossa del 6 gennaio 2021 con l’attacco al Campidoglio di Washington.

Il presidente Roberts partendo dall’art. II della Costituzione che garantisce l’immunità del presidente per gli atti legati alla sua funzione ha ritenuto che le pressioni di Trump sui procuratori generali dei vari stati per il riconteggio dei voti ed addirittura sul vicepresidente Mike Pence, esposto al rischio del linciaggio, fossero azioni istituzionali e che comunque non competa alla magistratura scandagliare le intenzioni del presidente.

Nel parere di minoranza la giudice Sotomayor ha scritto che «la Corte crea di fatto una zona franca intorno al presidente, sconvolgendo lo status quo che esisteva fin dalla fondazione. Questa nuova immunità per atti ufficiali ora mette nel cassetto un’arma carica per qualsiasi presidente che voglia anteporre i propri interessi, la propria sopravvivenza politica o il proprio guadagno finanziario agli interessi della nazione».

Qui sta la vera posta in gioco che va oltre, molto oltre i soliti stantii temi locali ed anche oltre il profilo del garantismo, pur caro a chi scrive per investire materie assai più esplosive.

Non a caso il NYT ha dedicato un ampio articolo al sulfureo Carl Schmitt teorico dello stato di eccezione e del principio di sovranità assoluta in capo al “principe”.

La faglia che divide i due campi è sottile e si muove lentamente, come i grandi temi della democrazia e della sopravvivenza dello stato di diritto.

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