La sentenza scritta dal giudice capo John Roberts e sostenuta da tutti i giudici conservatori amplia molto i limiti dello “scudo legale” destinato al capo dell’esecutivo. I giudici liberal rispondono dicendo che «il presidente diventa un re al di sopra della legge». All’atto pratico, i processi sul ribaltamento delle elezioni 2020 non inizierà mai prima del voto di novembre
L’ultimo verdetto della Corte suprema per questo 2024 riguarda il tema più atteso: Donald Trump e ogni altro presidente hanno l’immunità assoluta per quando compiono nell’esercizio delle loro funzioni. Secondo l’opinione scritta dal giudice capo John Roberts, il presidente è immune quando fa atti “ufficiali” in quanto la separazione dei poteri conferisce «l’immunità assoluta» al capo dell’esecutivo americano per gli atti ufficiali e una presunzione d’immunità per le azioni comprese nel «perimetro esterno»: vale a dire tutto ciò che riguarda le sue affermazioni pubbliche e le sue prese di posizione ufficiali. Forse sono anche compresi i tweet minacciosi da lui inviati dopo le elezioni su base quotidiana.
Nessuna protezione, si specifica, per atti «non ufficiali», quindi privati. A determinare se certi atti rimangono nel perimetro presidenziale, si legge sempre nelle pagine della sentenze, sarà la giudice distrettuale di Washington DC, Tanya Chutkan, che si è occupata finora di presiedere al caso riguardante il tentativo di ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali del 2020 (Chutkan è stata nominata da Obama nel 2014).
Ci sono però alcuni esempi che fanno intendere come l’opinione di Roberts, sostenuto dagli altri cinque giudici conservatori, vada oltre: rientrerebbero negli atti ufficiali anche le pressioni di Trump per ribaltare il risultato elettorale verso il suo vicepresidente Mike Pence o anche il fatto che usi il dipartimento di Giustizia per «attuare fedelmente i suoi provvedimenti». Nel primo caso però Roberts lascia la porta aperta per verificare «l’ufficialità» di questo comportamento. Infine, gli atti ufficiali non potranno più essere usati come prove in un processo riguardante il presidente per atti «non ufficiali».
Questa sentenza ha provocato un dissenso invece delle tre giudici liberal che si sono riconosciute nell’opinione dissenziente di Sonia Sotomayor che usando toni molto accesi dice che i giudici hanno reso il presidente «un re al di sopra della legge» e che la relazione tra presidente e cittadini è «irrimediabilmente compromessa» e che quindi ora «può violare la legge, usare i suoi poteri per guadagni personali e fini malvagi» e persino «organizzare un colpo di stato ed essere immune», con evidente riferimento ai fatti del 6 gennaio, e che questa sentenza «fa temere per la tenuta della democrazia».
Si notano anche due opinioni concorrenti: una del giudice ultraconservatore Clarence Thomas che fa un riferimento diretto al procuratore speciale Jack Smith dicendo che una figura del genere andrebbe sostituita con qualcuno di eletto dal popolo per questa «persecuzione senza precedenti».
E allora Nixon?
Per la giudice Amy Coney Barrett invece bisogna fare attenzione ai rapporti con gli stati: a suo avviso la creazione di liste di finti grandi elettori non rientra in un atto coperto da immunità ma anche, tra le righe, la pressione nei confronti del segretario di Stato della Georgia Brad Raffensperger per trovare diecimila voti nello stato.
Cosa vuol dire questo, all’atto pratico? Che il procedimento giudiziario iniziato dal procuratore speciale Jack Smith, incentrato sugli atti ufficiali del presidente nei mesi successivi all’Election Day del 2020, dovrà cambiare strategia per non finire nel nulla. Per farlo però, Smith dovrà prendere una nuova via che presumibilmente richiederà mesi, stando a ciò che stabilirà la giudice Chutkan. E quindi il processo vero e proprio non inizierà prima di novembre. A quel punto, però, qualora Trump risultasse vincitore delle elezioni, potrebbe semplicemente chiedere al dipartimento di far cadere le accuse.
Nel mondo politico invece c’è stata una reazione di pura esultanza da parte del mondo repubblicano, con a volte espressioni sguaiate: il senatore dell’Alabama Tommy Tuberville ha detto che Trump «pulirà il pavimento con Biden a novembre», mentre il diretto interessato ha detto che la sentenza è «una grande vittoria per la democrazia!» sui suoi account social, e che questo presumibilmente «interromperà la persecuzione di Joe il Corrotto nei miei confronti».
I dem, dal canto loro, hanno reagito in modo sommesso prima di accusare i giudici di essere complici, anche se nei mesi scorsi hanno chiesto ai due conservatori Samuel Alito e Clarence Thomas di ricusarsi per il coinvolgimento delle rispettive mogli nel movimento “Stop The Steal”. Da parte della campagna di Joe Biden si mette invece in guardia gli elettori dicendo che non cambia la natura di quanto è avvenuto il 6 gennaio 2021. Alcuni analisti però mettono in luce altri aspetti ancora più oscuri della sentenza: ad esempio il presidente Richard Nixon avrebbe potuto ordinare l’irruzione al complesso del Watergate nel 1972 perché fatto attraverso atti ufficiali.
Non solo: la sua teoria che se un atto è fatto da un presidente «non è illegale» acquisisce nuovo spessore. Perché, se Roberts afferma che non viene garantita l’immunità assoluta, questa in effetti ci assomiglia molto, perché rende molto limitata quell’area dove i presidenti diventano perseguibili come i comuni cittadini. Quindi di fatto la Corte suprema verrà gettata nel tritacarne elettorale dei dem, sperando che la sentenza Trump v. The United States abbia lo stesso effetto di mobilitazione della Dobbs sull’aborto, magari accantonando anche i dubbi dei giorni scorsi sulla senilità di Joe Biden.
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