La strada in Europa per Giorgia Meloni si fa sempre più stretta e si avvicina il momento della verità: più aspetta, più rischia l’irrilevanza per il suo partito e per l’Italia.

Mentre lei era impegnata dall’altra parte dell’oceano al vertice Nato di Washington, nel Vecchio Continente la situazione politica ha avuto una rapida evoluzione nello spingere la popolare Ursula von der Leyen verso la riconferma anche senza i voti della destra.

Dopo le intemperanze verbali di Meloni rivolte a Bruxelles dall’aula della Camera e la posizione di socialisti e liberali contro un’apertura a destra, la presidente uscente della Commissione è sul punto di trovare un accordo di massima con il gruppo dei Verdi per ottenere i loro voti – a patto di rispettare gli obiettivi del Green deal – e portare così la sua maggioranza su una soglia che la metta al riparo dai franchi tiratori. La “maggioranza Ursula” oggi conta 401 deputati (il minimo è 361) e con i 53 voti dei Verdi la tranquillità ci sarebbe.

Così, però, la leva di Meloni di fatto verrebbe meno: i suoi 24 voti con FdI non sarebbero più fondamentali per stabilizzare la guida di von der Leyen come invece il centrodestra sperava.

La premier, che è anche presidente del gruppo dei Conservatori, era infatti da tempo spinta, non solo dal suo vicepremier e membro dei popolari Antonio Tajani, ma anche da buona parte dell’establishment produttivo italiano, a trovare un accordo di non belligeranza con von der Leyen. Invece fino a oggi ha tentennato, col timore che votare la candidata popolare – visto che il gruppo Ecr ha stabilito che ogni componente avrà libertà di coscienza – poteva apparire una resa al vecchio status quo. L’attesa nel decidere come orientarsi, però, rischia di costarle cara.

Verso von der Leyen

Ora, da ambienti vicini a palazzo Chigi, emerge che la strategia di Meloni è quella di andare verso una «amichevole astensione», in vista di accordi futuri. Ma soprattutto di far pesare questo non-veto per ottenere un commissario italiano di peso.

Come sempre ripetuto, un paese importante come l’Italia deve essere adeguatamente rappresentato in Commissione. Tuttavia la vera contesa sono le deleghe da poter incassare. E Meloni, che ormai sembra decisa a proiettare il suo protetto e ministro Raffaele Fitto verso il ruolo di commissario europeo, deve lavorare per ottenere il più possibile.

La parabola di questi ultimi giorni, in vista del voto del 18 luglio in parlamento europeo, ha prodotto quindi un inizio di mutazione in Meloni. La pasionaria della destra, decisa ad apparire soprattutto come leader politica nell’area conservatrice, starebbe cominciando a cedere il posto alla figura della premier che, come lei stessa ripete spesso, «mette gli interessi dell’Italia al primo posto». E ora gli interessi del paese non sono certo quelli di rimanere arroccati fuori dal perimetro, non solo della maggioranza, ma anche delle forze dialoganti con la prossima presidente della Commissione.

In questa direzione sono andate anche le considerazioni pubbliche di Meloni, che nel punto stampa dopo il summit della Nato ha spiegato come il suo voto favorevole a von der Leyen dipenderà da ciò che la presidente uscente dirà nei prossimi giorni. Per la premier tutto dipenderà dal risultato che l’Italia otterrà e da quello che von der Leyen illustrerà a Ecr nell’ultimo incontro pre-voto.

«Come presidente del Consiglio italiano il mio obiettivo unico obiettivo è portare a casa per l’Italia il massimo risultato possibile. Come presidente di Ecr, Von der Leyen incontrerà il nostro gruppo e a valle di quello che lei dirà chiaramente dialogheremo con le altre delegazioni e decideremo che cosa fare».

La distanza dalla Lega

Da Washington, Meloni ha fatto emergere la sua posizione nei confronti dell’Ucraina, ampiamente condivisa anche dall’alleanza che si appresta a guidare l’Europa, anche a costo di aprire un nuovo fronte di scontro con il vicepremier Matteo Salvini. Il leghista è appena entrato nel nuovo gruppo di ultradestra dei Patrioti e non perde occasione di sottolineare i propri distinguo rispetto alla linea del governo, a partire proprio dal conflitto di Kiev su cui ha ribadito che l’invio di armi alimenta il conflitto.

«Noi in Ucraina ci siamo concentrati sui sistemi di difesa aerea, che è il modo migliore per difendere una nazione aggredita. Lo dico anche a chi da varie parti (ad esempio la Lega ndr) dice che se si continuano a inviare armi all’Ucraina si alimenta la guerra», ha detto Meloni, sottolineando che «la linea italiana è chiarissima in tutto il mondo. Il governo ha rispettato il suo programma e i suoi impegni con una solidità che non abbiamo visto in tutte le maggioranze».

Certo è che, lungo il crinale sottile su cui Meloni cammina, proprio i Patrioti possono essere un elemento destabilizzante.

Il nuovo gruppo guidato dal Rassemblement national e di cui fanno parte anche la Lega e il partito di Viktor Orbán è diventato il terzo per numeri all’interno del parlamento europeo, scalzando proprio Ecr.

«La partecipazione e la composizione dei gruppi europei non impedisce affatto che ci siano ottimi rapporti e che ci siano forme di collaborazione», ha detto la premier, consapevole del rischio di farsi superare a destra.

Poi non ha condannato il viaggio di Orbán a Mosca senza alcun mandato europeo, tenendo una posizione mediana: «Se fossero iniziative che possono portare qualche spiraglio di pace non ci vedrei niente di male. Ma se il giorno dopo si ottiene che un ospedale viene bombardato a me pare che questo dimostri purtroppo che non c'è alcuna volontà di dialogo da parte della Russia».

Terminata così la settimana americana, ora si apre quella delle scelte europee e tergiversare non sarà più possibile.

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