Giorgia Meloni è sulle montagne russe da settimane e alla guida c’è Donald Trump. Prima i mille dubbi sulla data del viaggio a Washington, ora il dietrofront sui dazi all’Unione europea: per la premier sono pochi i punti di riferimento da cui partire per organizzare il viaggio diplomatico.

Tanto è vero che la telefonata più importante di questi giorni è stata con la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, con cui si sono riaperte le interlocuzioni per capire come gestire il tanto atteso incontro del 17 aprile alla Casa Bianca senza farsi trascinare nel vortice caotico del presidente americano.

Anche per questo Meloni ha preferito rinunciare all’appuntamento al Salone del mobile di Milano, così da evitare anche domande a cui ad oggi sarebbe stato difficile rispondere. Secondo fonti meloniane, il forfait è stato dato per preparare al meglio il viaggio oltreoceano, pur nella consapevolezza che da qui al 17 le giravolte del tycoon potrebbero non essere finite.

Sarà presente invece il 15 – due giorni prima della partenza – alla cerimonia per la Giornata Qualità Italia, insieme al ministro degli Esteri Antonio Tajani e a quello del Made in Italy Adolfo Urso. Un modo per rassicurare nuovamente i rappresentanti delle categorie – a partire da Confindustria - che più sarebbero penalizzate dai dazi ora in stand by e che con palazzo Chigi hanno avuto una interlocuzione in settimana, che tuttavia secondo fonti interne li avrebbe lasciati piuttosto freddi.

Del resto, anche la promessa dei 25 miliardi – tra riprogrammazione del Pnrr e fondi di coesione - di scudo alle imprese è ancora preceduta da molti verbi al condizionale. Lo ha lasciato trasparire il ministro per i rapporti col Parlamento Luca Ciriani, che ha precisato come «se i risultati delle trattative saranno buoni come auspichiamo, quei fondi potrebbero non essere utilizzati».

Tutto, per ora, rimane quindi scritto sull’acqua. Lo stesso vale per un’altra ipotesi che trapela dall’esecutivo: un fondo di compensazione europeo per ristorare le imprese, nel caso in cui i dazi ritornino in vigore. «Tutto dipende dagli esiti del negoziato con gli Usa», è il ragionamento.

Anche per questo la premier sta evitando accuratamente di tornare in parlamento, nonostante le opposizioni reclamino una sua informativa alle Camere in cui dar conto del piano economico del governo e soprattutto quali obiettivi avrà il viaggio negli Stati Uniti. Difficile, però, che la richiesta venga ascoltata.

La strategia

Formalmente, il mantra del governo e di Meloni è «dialogo». Con Trump, ma anche con l’Unione europea, per ottenere la rinegoziazione di quelli che tutt’ora il centrodestra chiama dazi interni, a partire dal Green deal «figlio di una visione ideologica» e soprattutto dalla «sburocratizzazione».

Intanto, è stata accolta con sollievo la notizia che l’Ue ha congelato le contro-tariffe Ue nei confronti dei prodotti americani, che avrebbero dovuto essere annunciate il 15 aprile. Questo già di per sé alleggerisce il peso dell’incontro con Trump, che non sarà zavorrato da quella che il tycoon avrebbe preso come una dichiarazione di guerra.

Tuttavia, anche da FdI trapela il fatto che le parole del presidente americano sui paesi pronti a «baciargli il culo» siano state un colpo. Anche per questo l’interlocuzione europea si sarebbe rafforzata, propiziata anche dal sempre più fidato alleato Tajani, che nel Ppe ha sempre perorato la causa di FdI come puntello esterno, voce dialogante tra i Conservatori.

La certezza, però, è che il presidente Trump si aspetta che chi gli chiede colloquio abbia qualcosa da mettere sul tavolo. Meloni – che sa di non poter parlare come ufficiosa ambasciatrice europea e quindi di poter lavorare solo nell’ottica di un incontro bilaterale – citerà certamente la richiesta dello «zero per zero», già anticipata alle categorie produttive e che significherebbe zero dazi da entrambe le sponde dell’Atlantico.

Non solo, però. Un documento di FdI fatto circolare tra i referenti del partito specifica che «l’Ue deve fermare la concorrenza sleale della Cina», che trovandosi chiuso il mercato americano (Washington ha portato i dazi al 145 per cento) potrebbe riversare tutto il suo prodotto verso l’Europa. Per questo il ministero del Made in Italy sta già correndo ai ripari con un documento di indirizzo, che verrà esaminato anche dal ministero degli Esteri e poi nella task force di palazzo Chigi.

Proprio questa posizione così critica sulla Cina sarebbe un modo per avvicinarsi a Trump, con un sottinteso rischioso, però. Tra le ipotesi non eslcuse, infatti, c’è anche quella che il tycoon proponga all’Ue di associarsi alla sua politica anti-Cina, chiedendole di schierarsi.

Un’ipotesi, questa, che troverebbe l’avversione di almeno un grande paese europeo: la Germania. Ulteriore questione che Meloni potrebbe utilizzare come argomento con Trump è un passo dell’Italia a favore del raggiungimento – graduale – del 5 per cento di spesa in armi. A creare problemi, però, sarebbe la Lega che ha ribadito in modo netto il suo no al riarmo e lo cavalca, in funzione tutta interna.

Ogni mossa sul tavolo per Meloni presenta rischi e controindicazioni. Per questo meglio il silenzio, lasciando parlare altri. Come il fidato Tajani, in missione in India per lavorare anche nella direzione di aprire nuove partnership. L’Ue ha «l’unica competenza in materia tariffaria», ha ribadito, sottolineando che il viaggio di Meloni servirà a «dare un contributo alla riduzione della tensione e favorire un accordo tra l'Unione europea e gli Usa». Da qui al 17 aprile, però, l’obiettivo è quello di maturare una lista di proposte: Trump è un negoziatore e ha fatto capire che solo con questa finalità è aperto al dialogo.

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