Chissà quanti lettori di Zerocalcare sono suoi coetanei, maschi, senza figli e hanno ancora il padre in vita. Molti, forse. In Quando muori resta a me, il suo ultimo lavoro, Zerocalcare ha deciso di rivolgersi quasi interamente a loro e di parlare quasi soltanto di loro. Con la sua abituale estetica e tutti i suoi tic, Zerocalcare esprime due tesi sulla condizione maschile.
Prima tesi: i maschi non sanno comunicare i propri sentimenti: «Noi sappiamo parla’ solo de cazzate». E di questa incapacità fanno bandiera della propria maschilità: «Gli affetti rendono femmine», si dice a un certo punto nel fumetto, con la solita amara ironia. L’incomunicabilità maschile è tratto costante, peraltro, che si perpetua lungo le generazioni: tutti i maschi della famiglia di Zero, almeno per come sono ritratti nel fumetto, si mostrano duri e chiusi, soprattutto coi loro cari. Il padre di Zerocalcare fa parziale eccezione non tanto perché comunica i suoi veri sentimenti, quanto perché mitiga con una certa bonaria ironia la rudezza dei maschi che l’hanno preceduto.
La relazione padre-figlio
La seconda tesi sul maschile è che per i maschi la relazione padre-figlio (da entrambi i lati: essere padri ed essere figli) è sempre e sempre sarà scomoda, sghemba, difficile da vivere con serenità e naturalezza. L’infrangersi della famiglia tradizionale – il divorzio dei genitori di Zero, per come viene rappresentato nel fumetto – coincide con la solitudine del maschio e con il rischio di perdere il rapporto col figlio. Evitare tutto questo è rappresentato come una lotta, una lotta contro un mostro mitico (Merman, un personaggio dei Masters of the Universe), una lotta che dura tutta la vita, e a cui si sopravvive solo scappando, non mai avendo la meglio.
Da questo punto di vista, come fa da tempo e forse in maniera ancora più accentuata da quando ha cominciato a usare il linguaggio delle serie Netflix, Zerocalcare presenta diagnosi epocali ed esistenziali: il personaggio che parla nel fumetto, e che talvolta richiama, ma sempre con molte cautele, l’autore vero e proprio, racconta una generazione, un segmento di opinione pubblica, una classe, e adesso (o adesso più che mai) un genere, il genere dei maschi cis-etero.
Forse proprio per questo, quella di Zerocalcare è vera letteratura, cioè è descrizione autentica della realtà, con una capacità rara e maggiore di tanta saggistica di vedere aspetti al tempo stesso evidenti e interessanti della società. E in questo modo Zerocalcare si allinea, pur nella sua indubbia originalità, a un tema ormai comune nella cultura contemporanea, che va dalle canzoni ai film e ai romanzi.
La critica e la crisi del patriarcato e della famiglia naturale hanno come controparte non certo inaspettata un emergere crescente di riflessioni sul maschile e sulla paternità, di tentativi spesso balbettanti e solo accennati di capire che cosa sostituire al ferreo modello della maschilità e della paternità tradizionale, la cui tossicità è ormai evidente anche a chi ne ha più nostalgia.
Eppure, al contrario di molti letterati che esplicitamente si pongono contro qualsiasi impegno della letteratura, la voce e lo sguardo di Zerocalcare sono sempre un po’ eccedenti rispetto alla mera spietata descrizione.
Sguardo militante
Zerocalcare come autore, come organizzatore del sistema di simboli delle sue storie (e non certo solo come personaggio) ha sempre un punto di vista, uno sguardo militante. È lo sguardo per cui, per esempio, il divorzio e la separazione dei genitori non sono affatto un trauma, sono nell’ordine delle cose.
Il problema è piuttosto la solitudine del padre che il divorzio comporta, il distacco fra padre e figlio. Questo è turbativo, ed è un turbamento irrisolto. Se rimane solo, il padre non è più «l’eroe di granito che aveva combattuto Merman», è diventato «un uomo piccolo, fatto di materiale friabile», che si può «sgretolare con un soffio», e questo produce un senso di colpa nel figlio. E, alla fin fine, è uno sguardo sempre infantile, o infantilista, di quell’infantilismo conservatore, per cui certe cose non possono e non debbono mutare, debbono rimanere sempre lì, come le ha cristallizzate la memoria, come sedi e luoghi della nostalgia che tinge di malinconia la vita adulta, ma garantisce un contatto con la vita migliore, che è quella perduta dell’infanzia. È per questo che Zero dà in escandescenze perché il padre ha buttato i giochi d’infanzia della sua stanza, dove lui non viene da anni.
Disfatta conservatrice
Questo sguardo è militante, ma anche profondamente conservatore. Quando muori resta a me mette in scena una disfatta conservatrice. La famiglia tradizionale non c’è più, e non era un granché (quel divorzio è risolutivo di un’impasse, pare di capire). Il maschio e il padre tradizionali non ci sono più, e non erano granché: facevano parte di un mondo duro, fatto di anaffettività e scarsa comunicazione, di rudezze gratuite, di crudeltà e tradimenti, di lotta per la sopravvivenza (la Prima guerra mondiale e l’emigrazione economica dal nord povero al centro fra le due guerre, la violenza degli anni Settanta e la repressione che ne è seguita). Ma a tutto questo non si sostituisce nulla di migliore. Solo adulti non cresciuti, che non sanno inventarsi nuovi modelli di famiglia o di genitorialità, ma oscillano fra rimpianto del passato o rabbiosa affermazione del proprio distacco.
Quando Zero chiama Sarah, l’amica lesbica, per dirle il suo rovello, la soluzione che gli viene proposta è: di figli non si parla a chi non ne ha e non ne ha voluti avere. E peraltro chi, della generazione di Zero, ha figli «sta gonfio de psicofarmaci», nota Sarah.
Alla civiltà oppressiva del passato non se ne contrappone un’altra, migliore. Dopo la fine del patriarcato, solo rancore (per padri troppo duri e infanzie troppo aride) e tabù (nei confronti della propria possibile genitorialità). Si rivendica una vita senza figli come reazione a chi vuole imporre un certo modello di famiglia. Non una vita diversa, con modelli differenti, per esempio con altri tipi di cure (l’adozione, le gravidanze per altri, le famiglie allargate). Libertà è negarsi certi progetti pur di non ricadere nelle trappole del passato. Una diagnosi pessimista, una militanza spuntata. Un’occasione perduta per un’autocoscienza maschile.
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