Nella società contemporanea, fingersi un capro espiatorio può comportare vantaggi consistenti. L’uso strumentale dell’essere una vittima, alimentando il risentimento, può trasformare un meccanismo arcaico in un moderno processo di costruzione del consenso mediatico e politico
Nella società contemporanea, fingersi un capro espiatorio può comportare vantaggi consistenti. L’uso strumentale dell’essere una vittima, alimentando il risentimento, può trasformare un meccanismo arcaico in un moderno processo di costruzione del consenso mediatico e politico. Si usa la diffusa e generalizzata preoccupazione per le vittime per attirare l’attenzione su di sé e legittimare le proprie azioni». Così inizia uno dei capitoli dell’ultimo libro del sociologo Stefano Tomelleri (Il capro espiatorio, Utet Università, 2023).
Tomelleri sostiene che, per comprendere sino in fondo la natura di questi processi di autovittimizzazione abilmente costruiti da talune personalità politiche dobbiamo guardare a tre elementi: il narcisismo individuale nella forma di una costante esaltazione di sé e di una altrettanto permanente svalutazione del prossimo; il contesto storico e il rapporto instaurato dal leader con i seguaci. Il maestro nell’uso di questa strategia di cui il sociologo analizza in quel capitolo la biografia è l’ex magnate divenuto presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
La tesi è convincente. Sarebbe interessante verificare se funziona anche in altri casi, ad esempio in quello di una sincera ammiratrice di Trump come Giorgia Meloni. A me pare che nella propaganda di Meloni il ricorso alla vittimizzazione sia fortissimo e riguardi una molteplicità di enti tutti strettamente collegati tra loro. La prima vittima è la stessa fondatrice di Fratelli d’Italia, la cui vita è stata segnata dall’abbandono da parte di un padre irresponsabile e scellerato, da un’infanzia complicata, dalla residenza in un quartiere proletario, da un percorso scolastico non proprio di prim’ordine.
Meloni e gli altri
In questo la storia di Meloni è molto diversa da quella di Trump, figlio di un palazzinaro newyorchese, ma è molto simile a quella di altri underdog, ad esempio, di Benito Mussolini, nato in un sobborgo della campagna forlivese da un fabbro e da una maestra elementare o di Adolf Hitler, figlio di un doganiere e in gioventù artista fallito e pittore di strada o ancora di Josif Stalin, nato in una cittadina della Georgia, non certo a Mosca o a San Pietroburgo, da un calzolaio violento e da una contadina fanatica religiosa. La seconda vittima nella propaganda meloniana è il neofascismo italiano, che la leader descrive come oggetto di un ostinato e generalizzato ostracismo.
Anche in questo caso, lungi dal cercare di recidere le radici come tentò di fare Fini a Fiuggi, Meloni le esalta sottolineando l’ingiustizia di quell’esclusione quarantennale. La terza vittima è l’Italia, la “nazione” ostaggio degli assurdi diktat europei, il paese la cui lingua va protetta dal dilagante e aggressivo imperialismo culturale anglossassone, i cui campioni in ogni campo vanno riportati agli onori degli altari, la cui terra, così esposta per ragioni naturali agli sbarchi, va salvaguardata dalle orde barbariche provenienti da sud. Le tre vittime della fiaba meloniana nelle parole della premier si fondono, diventando quasi indistinguibili: la bimba cresciuta in mezzo a mille difficoltà sola con la mamma diventa la metafora esatta dei cultori fedeli della memoria del Duce costretti a un’esistenza politica sempre ai margini e di una nazione umiliata e messa all’angolo.
Da questa fusione derivano due conseguenze importanti: la prima è il desiderio incontenibile di riscatto; la seconda è l’assoluta coincidenza di destino delle tre entità: il trionfo di Meloni finisce con coincidere con la piena riabilitazione della storia missina e con la consegna all’Italia del ruolo che merita. L’alleanza delle vittime prevede anche una chiara divisione dei ruoli: quello di protagonista tocca solo al capo. Gli altri, i seguaci, il popolo devono solo seguire con fiducia il pastore che ha inverato il detto “volere è potere” e annunciato loro l’avvento di un mondo nuovo. La partecipazione diffusa non serve, le critiche sono inutili o peggio malevole, l’autonomia e il ragionar con la propria testa una perdita di tempo.
Nelle intenzioni di Meloni, presto anche il sistema istituzionale si adeguerà dando al popolo la possibilità di tributare alla leader maxima un consenso plateale e diretto, scrivendo il suo nome sulla scheda e concedendole tutti i poteri che merita. La funzionalità istituzionale della riforma è del tutto secondaria rispetto a questa profonda esigenza rituale e simbolica. Le vittime non possono mai essere criticate. La loro parola diventa verità e legge.
Scrive Tomelleri che la vittimizzazione è una strategia di manipolazione. È un’osservazione pertinente anche se francamente non so se davvero, nei casi di Meloni, di Trump e degli altri, si tratti solo di una strategia consapevole e studiata e non piuttosto di un mix di tanti elementi che comprende anche molti aspetti inconsapevoli. Quel che per me è davvero rilevante è la plausibilità del disegno vittimario meloniano di imporsi come autocoscienza del paese. Un tratto comune dei grandiosi edifici narcisistici, si sa, è di rimanere sospesi a lungo tra il trionfo e la caduta rovinosa. Vedremo su quale dei due versanti precipiterà la vicenda della vittima d’Italia Giorgia Meloni.
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