In un’intervista coraggiosa la ministra ha abbandonato posizioni sicure e difeso le sue idee. Adesso faccia un altro passo: provi a vedere dove la logica delle sue stesse parole potrebbe portarla
In un’intervista su La Stampa, Eugenia Roccella menziona l’istituto dell’affidamento come alternativa all’adozione. L’affidamento si ha quando il figlio di un genitore o di genitori che per svariate ragioni hanno difficoltà a garantire cure adeguate viene affidato temporaneamente dai servizi sociali a un’altra famiglia, che per la legge italiana può essere anche monogenitoriale o composta da individui dello stesso sesso.
L’affidamento è differente sia dall’adozione – che per legge è impedita, o resa più difficile, per genitori dello stesso sesso o per genitori singoli – sia dalla genitorialità cosiddetta naturale, dato che i figli in affido, come quelli adottati, non hanno legame biologico con chi li cura.
Nell’intervista, Roccella dice che bisogna potenziare gli affidi, e bisogna farlo perché le adozioni sono sempre più difficili, per il calo della natalità e le condizioni geopolitiche.
Ma non c’è calo della natalità a livello globale. La natalità cala solo in certi paesi del mondo. Quindi Roccella assume implicitamente, e avalla, il fatto che si vogliano adottare bambini solo se provengono da certi posti, cioè solo se hanno certe caratteristiche, il colore della pelle, per esempio. Immagino che Roccella sarebbe contro l’eugenetica. Non vedo la differenza fra scegliere di adottare un bambino bianco rispetto a scegliere di crearne uno con pelle bianca tramite fecondazione assistita o altre tecniche.
La cosa offensiva, per i genitori affidatari, è che l’affidamento è implicitamente considerato un’opzione di serie C, perché viene dopo la genitorialità cosiddetta naturale e l’adozione.
L’intervistatrice fa poi notare che nell’affidamento i figli ritornano ai genitori naturali, il che può comportare un dolore per i genitori affidatari. Nella realtà delle cose e della legislazione la cosa non è così drastica. I genitori affidatari maturano diritti nei confronti dei loro figli, e nei casi di affidamento riuscito si ha un allargamento delle relazioni affettive. Naturalmente, non sempre le cose vanno bene quando ci sono di mezzo situazioni delicate.
Ma è interessante la risposta di Roccella: «Biologici, adottivi o affidatari, i buoni genitori hanno questo compito difficilissimo: educare i figli e lasciarli per andare nel mondo». Questa è la parte coraggiosa di un’intervista che contiene altri elementi di sincerità e coraggio relativi alle vicende biografiche di Roccella, su cui qui non ci si sofferma.
I figli non sono una proprietà: sono piuttosto compagni di viaggio, individui autonomi che meritano cure, che non servono a completare vite o realizzare vocazioni. Questo è ciò che rende l’affidamento la forma forse migliore, perché più disinteressata e lucida, di genitorialità: una relazione in cui il minore è al centro di tutto, con la sua storia personale, che non viene né negata né rimossa, e in cui il ruolo dei genitori è far fiorire un individuo già in parte formato e con un bagaglio di esperienze.
Non c’è la tabula rasa, il sogno prometeico di riprodurre sé stessi, l’idea di una creazione potentissima che spesso informa la concezione della genitorialità naturale.
Ma questa interessante notazione stride con molte delle altre cose che Roccella dice, quando per esempio sostiene che la maternità è un potere, una competenza esclusiva delle donne, una parte dell’antropologia della donna in quanto essenzialmente differente dall’uomo.
Come può essere un potere un atto di cura che si fonda sull’autonomia dell’individuo curato? Come può essere una competenza esclusiva delle donne quando esiste una forma di genitorialità che prescinde del tutto dal legame gestazionale e biologico? Di nuovo, delle due l’una: o la genitorialità affidataria è di serie C, e Roccella lo sta dicendo, offendendo così genitori e figli affidatari, o la genitorialità va al di là del legame gestazionale e biologico, e nulla ha a che fare col potere, e molto di più con la cura (un altro elemento del femminismo che Roccella e molte femministe della differenza paiono dimenticare).
Roccella è sicuramente una persona coraggiosa: ha abbandonato posizioni sicure e difeso le sue idee. Forse può compiere un altro passo, e vedere dove la logica delle sue stesse parole dovrebbe portarla. Se lo facesse, nella posizione istituzionale che occupa, molti genitori – affidatari, gay, lesbiche – non potrebbero che essergliene grati.
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