L’obiettivo doveva essere quello di garantire un posto all’asilo nido almeno a 33 bambini su 100 (al di sotto dei tre anni). Così aveva suggerito il Consiglio europeo riunito a Barcellona, più di vent’anni fa, nel 2002. Così la legge di bilancio del 2022 aveva fissato nero su bianco, stanziando le risorse necessarie a incrementare il numero di posti negli asilo nido fino a raggiungere, nel 2027, il livello essenziale della prestazione (Lep) del 33 per cento della popolazione tra i 3 e 36 mesi. Non solo in media a livello nazionale ma anche all’interno di ogni comune, provincia o ente territoriale che eroga il servizio.

«Almeno, con la legge di bilancio del 2022, l’idea di garantire un servizio aperto a tutte e tutti e di qualità ha iniziato a essere dichiarata anche formalmente. Anche con il Pnrr, nella sua versione originaria prima dei tagli, erano stati stanziati 4,6 miliardi di euro per realizzare 264mila nuovi posti negli asili nido, proprio per raggiungere l’obiettivo europeo del 33 per cento», spiega durante una conferenza stampa alla Camera dei deputati il 16 dicembre, Antonia Labonia, presidente del Gruppo nazionale di studio Nidi e Infanzia, un’associazione nata nel 1980 per offrire occasioni di incontro e discussione tra persone impegnate nell’educazione della prima infanzia.

E invece, «stiamo ragionando su un obiettivo vecchio. Le nuove raccomandazioni dell’Unione europea spostano il traguardo, entro il 2030, al 45 per cento della popolazione 0-3 anni a cui garantire un posto all’asilo nido. Inoltre, le risorse del Pnrr sono state ridotte a 3,24 miliardi per la realizzazione di 150.580 posti», chiarisce ancora Labonia.

Non solo, perché «sebbene il Piano strutturale di bilancio di medio termine, approvato dal Consiglio dei ministri a fine dello scorso settembre, abbia ribadito l’obiettivo del 33 per cento da raggiungere come media nazionale, per le Regioni – si legge in un’appendice al documento – sarà sufficiente avere una disponibilità di posti pari al 15 per cento del numero dei bambini sotto i tre anni».

Com’è possibile? Nel testo si definisce una differenziazione di prestazioni sulla base dei territori: ad alcune regioni basterà raggiungere il target del 15 per cento dei posti garantiti. E prende pure il via la stagione dei tagli ai Lep, cioè gli standard minimi delle prestazioni e dei servizi che dovrebbero essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio. Perché, se alcune regioni superano l’obiettivo dei 33 posti su cento bambini, altre sono molto sotto. Ma se a contare è solo la media nazionale, si cristallizzano le differenze tra regioni e territori.

Tagli alla prima infanzia

I tagli iniziano proprio dai servizi per la prima infanzia. «In Italia ci sono regioni, soprattutto del centro-nord che hanno da tempo superato l’obiettivo del 33 per cento. Altre come Campania, Sicilia, Calabria con livelli di copertura molto inferiori al 15 per cento.

(FONTE: elaborazione openpolis – Con i Bambini su dati Istat, ultimo aggiornamento: giovedì 15 Giugno 2023)

Ci sono divari perfino all’interno delle stesse regioni tra aree interne e zone urbane», spiega Labonia, per sottolineare che non garantire un’offerta uniforme in tutto il paese significa penalizzare proprio quei territori in cui l’intervento educativo sarebbe più necessario, «nei primi mesi di vita che sono fondamentali per lo sviluppo del bambino, come testimonia molta letteratura scientifica. Occorre, invece, che ai servizi per l’infanzia 0-6 sia riconosciuta la stessa importanza degli altri cicli, e per questo stanziare gli investimenti opportuni», dice Labonia. Che aggiunge: «Investire nei sistema “zero sei” significa investire non solo sui cittadini del domani ma anche su donne e famiglie».

A ribadire come non si possa fare un passo indietro sui diritti dell’infanzia e sui Lep, nella sala stampa a Montecitorio, c’è anche Laura Baldassarre, rappresentante Unicef Italia, che spiega come le raccomandazioni dell’Onu nei confronti del nostro paese siano state molto chiare: «C’è una forte preoccupazione per i divari territoriali nell’accesso ai servizi per l’infanzia. Gli standard, invece, dovrebbero essere uguali per tutti, sia a livello quantitativo che qualitativo».

Sia perché i bambini non possono essere discriminati in base a dove nascono. Sia per garantire i servizi alle famiglie e così contrastare la denatalità e la disoccupazione femminile che fa dell’Italia uno dei peggiori paesi dell’Ue.

«E per abbattere la violenza di genere visto che le neuroscienze ci dicono che gli stereotipi di genere si costruiscono nelle persone già intorno ai 36 mesi di vita. I servizi per l’infanzia hanno un ruolo centrale nella formazione del bambino. Tagliandoli tagliamo il loro futuro» aggiunge la deputata del Movimento 5 Stelle Gilda Sportiello.

«Se pensiamo che, raggiungendo l’obiettivo del 45 per cento, garantiamo un posto all’asilo nido a meno della metà dei minori 0-3, ci rendiamo contro di quanto siamo indietro. Non possiamo rassegnarci», enfatizza Sportiello ricordando come sia importante sollevare la questione proprio nei giorni in cui la legge di bilancio per il 2025 sta per arrivare in aula alla Camera: «Perché possiamo ancora invertire la rotta».

© Riproduzione riservata