Potrebbe essere questione di ore. Mai come in questi giorni Israele e Hamas sono vicini a un accordo per raggiungere la tregua a Gaza e la liberazione degli ostaggi in mano all’organizzazione terroristica palestinese.

I momenti, per arrivare all’intesa finale, sono maturi. Hamas ha sciolto le sue riserve, c’è flessibilità, troppo duri i colpi subito negli ultimi mesi a partire dall’uccisione di Yahya Sinwar che ha riaperto le trattative. Secondo il media saudita Al Arabiya Hamas avrebbe anche accettato una presenza militare dell’Idf nella prima fase della tregua. Non è da escludere che le firme finali possano avvenire entro la fine del 2024 e prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Anche per questo il capo della Cia, Bill Burns, è arrivato in Qatar.

Ora la palla è nelle mani del governo israeliano, secondo Haaretz i mediatori stanno pressando affinché vengano rilasciate decine di alti dirigenti palestinesi. Per il premier Benjamin Netanyahu (apparso per la quarta volta in aula per i processi a suo carico) sarà complicato tenere unita la sua maggioranza soprattutto gli esponenti dell’ultra destra. Il ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, ha definito l’accordo un «errore grave». «Hamas è attualmente nel suo punto più debole e questo non è il momento di dargli una via di fuga», ha detto. Ma molti israeliani vogliono arrivare a una tregua il prima possibile, come dimostra la manifestazione degli studenti avvenuta ieri in occasione del 25esimo anno di compleanno del giovane Matan Zangauker, ancora nelle mani di Hamas.

Intanto a Gaza si bombarda, a Beit Lahya sono stati uccisi altri dieci palestinesi. La somma totale delle vittime in oltre un anno di guerra ha superato le 45mila. A pagarne lo scotto sono stati i civili. Anche per questo motivo diverse famiglie palestinesi hanno fatto causa al dipartimento di Stato americano per aver sostenuto l’esercito Israeliano nella Striscia. Secondo le famiglie, sotto il segretario di Stato Antony Blinken, il dipartimento avrebbe aggirato una legge americana sui diritti umani per finanziare e sostenere le unità militari israeliane a Gaza e in Cisgiordania.

L’avanzata nel Golan

Mentre a Gaza si continua a bombardare, in Siria l’esercito israeliano sta proseguendo l’avanzata nelle alture del Golan. Il premier Netanyahu ha ordinato alle forze di difesa (Idf) di mantenere il controllo della zona cuscinetto demilitarizzata della Siria intorno al monte Hermon fino alla fine del 2025, dopo che nei giorni scorsi il governo aveva approvato un piano per potenziare la costruzione di insediamenti israeliani sulle alture del Golan siriane occupate. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani le truppe dello stato ebraico sono penetrate per nove chilometri nella campagna di Daraa.

Nel frattempo sono stati avviati anche i primi contatti con i ribelli jihadisti di Hayat Tahrir al Sham che hanno preso il potere in Siria. Secondo un’alta fonte israeliana le due autorità si scambiano «messaggi attraverso vari attori».

La Siria

Tutti gli occhi sono puntati sulla Siria e sul presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Diversi leader europei stanno anche pensando di togliere le sanzioni introdotte al culmine della guerra civile. «Dovremmo riconsiderare le nostre sanzioni settoriali» contro la Siria «per facilitare la ricostruzione e, ancora una volta, per farlo dobbiamo vedere un vero progresso verso un processo politico inclusivo», ha detto la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.

Concetto ribadito anche dalla premier Giorgia Meloni in aula al Senato. Ma il vero player della regione è il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che ha incontrato il premier libanese Najib Mikati. «In Siria è iniziata una nuova era e una Siria stabile porta stabilità a tutta l’area. La Turchia come il Libano ha aperto le porte ai profughi e ora entrambi vogliamo una Siria unita e integra dal punto di vista territoriale. Credo che il governo di transizione saprà dare al paese una direzione con acume e intelligenza», ha detto Erdogan in conferenza stampa.

«Con la Turchia le relazioni saranno strategiche, all’inizio mirate alla ricostruzione del Paese. Vogliamo però anche sviluppare relazioni commerciali che permettano alla Siria di intraprendere uno sviluppo economico», ha detto il leader dei jihadisti Abu Mohammed al Jolani che ha definito la caduta di Assad come anche una vittoria «per il popolo turco».

Ma il paese è interamente da ricostruire. I numeri della crisi umanitaria fanno impressione. Secondo l’Unicef circa 7,5 milioni di bambini hanno bisogno di assistenza. Resta da sciogliere il nodo incerto dei curdi. Che fine faranno? Intanto nell’area di Kobane regge il cessate il fuoco entrato in vigore nella mattinata del 18 dicembre.

© Riproduzione riservata