La nuova drammatica fase del confitto israelo-palestinese, ha sorpreso anche il Vaticano, storicamente molto attento a quanto accade in Terra Santa. Dopo alcuni giorni di sorpresa e sbandamento, il papa e la diplomazia d’Oltretevere sono intervenuti ponendo alcuni punti fermi. Francesco al termine dell’udienza generale del mercoledì, ha rivolto un appello affinché tutti gli ostaggi vengano rilasciati, ha poi affermato chiaramente che chi viene aggredito ha il diritto di difendersi, ha condannato terrorismo e estremismi, e ha espresso la propria preoccupazione per l’assedio cui è sottoposta Gaza dove pure si contano molte vittime innocenti.
Le parole del pontefice erano state accompagnate il giorno prima da due autorevoli interventi; in primo luogo il segretario di stato, card. Pietro Parolin, parlando nel corso di un importante convegno organizzato dalla pontificia università gregoriana sulle nuove carte emerse dagli archivi vaticani in relazione proprio alla questione del rapporto fra Pio XII e la persecuzione degli ebrei nel corso del secondo conflitto mondiale, aveva richiamato la diplomazia, superato questo momento di emotività, a mettere in campo tutte le iniziative possibili per scongiurare un’escalation della guerra.

«Certamente dovrà esserci l'impegno di tutti», ha detto il cardinale, «per cercare di limitare prima di tutto questo conflitto che scoppiato in maniera del tutto sorprendente». Quindi sarà necessario «mettere in atto tutti gli strumenti della diplomazia, una volta superato questo primo momento in cui è molto difficile ragionare sulle cose, tutti presi dall'emotività di quanto sta succedendo».  
Sulla stessa falsariga si era pronunciato, in un’intervista rilasciata ai media vaticani, il patriarca latino di Gerusalemme da pochi giorni diventato cardinale, Pierbattista Pizzaballa.
Il patriarca aveva infatti chiesto alla comunità internazionale di intervenire con trattative riservate, dato che i negoziati pubblici in questo scenario non funzionano mai, per raggiungere un cessate il fuoco quanto mai urgente per la ripresa di qualsiasi iniziativa diplomatica.

Estremismo di governo

In precedenza, tuttavia, una presa di posizione dei patriarchi cristiani di Terra Santa era stata fortemente criticata dall’ambasciata d’Israele presso la santa sede, per l’ambiguità linguistica utilizzata e perché di fatto, restando nel generico di affermazioni di maniera, non distingueva fra aggredito e aggressore.
È probabile, tuttavia, che quel primo pronunciamento delle chiese cristiane in Terra Santa, fosse stato influenzato anche dalla passività e dall’indifferenza con cui il governo guidato da Benjamin Netanyhau, di cui fanno parte alcuni partiti di estrema destra legati al fondamentalismo religioso (che esprimono fra l’altro il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir), aveva assistito a diverse offese e provocazioni contro pellegrini e istituzioni cristiane negli ultimi mesi.
Da ultimo, il primo ottobre scorso, alcuni ebrei ultraortodossi, avevano sputato verso un gruppo di pellegrini cristiani che percorrevano le strade di Gerusalemme in processione portando una grande croce. Secondo il quotidiano Jerusalem Post, nonostante quest’ultimo episodio sia stato condannato dalle autorità politiche e religiose israeliane, «non è stato un evento isolato. Negli ultimi mesi gli estremisti ebrei hanno preso di mira i siti cristiani, i turisti e il clero con allarmante impunità, incontrando appena un sussurro di obiezione. Questi incidenti includono atti di vandalismo nei siti storici cristiani, scontri con pellegrini cristiani e comportamenti irrispettosi nei confronti del clero e dei fedeli cristiani».
Questo stato di cose, affermava ancora il quotidiano israeliano, «non può persistere. Sebbene tali atti siano compiuti da una piccola frangia estremista, essi offuscano la reputazione di tutti gli israeliani». Il Jerusalem Post metteva sotto accusa, fra l’altro, la leadership religiosa dello stato ebraico incapace di trasmettere i principi di rispetto e fratellanza.  

 In un contesto dunque reso drammatico dall’aggressione di Hamas e già carico di tensioni, in Vaticano come in molte cancellerie del mondo, sarebbero almeno un po’ rassicurati dall’ingresso nella coalizione di governo di Benny Gantz, leader del partito centrista Unione nazionale, oggi all’opposizione, e dalla fuoriuscita dall’esecutivo dei leader di estrema destra, secondo l’ipotesi del governo di unità nazionale cui si sta lavorando in Israele. Ma andiamo con ordine.

Vittime innocenti

Francesco, al termine dell’udienza generale del mercoledì, ha affermato: «Prego per quelle famiglie che hanno visto trasformare un giorno di festa in un giorno di lutto e chiedo che gli ostaggi vengano subito rilasciati. È diritto di chi è attaccato difendersi, ma sono molto preoccupato per l’assedio totale in cui vivono i palestinesi a Gaza, dove pure ci sono state molte vittime innocenti». Quindi ha aggiunto: «Il terrorismo e gli estremismi non aiutano a raggiungere una soluzione al conflitto tra israeliani e palestinesi, ma alimentano l’odio, la violenza, la vendetta, e fanno solo soffrire gli uni e gli altri. Il Medio Oriente non ha bisogno di guerra, ma di pace, di una pace costruita sulla giustizia, sul dialogo e sul coraggio della fraternità».
Significative, in senso politico, le parole del patriarca Pizzaballa, primo cardinale di Gerusalemme: «La comunità internazionale deve riprendere a guardare al Medio Oriente e alla questione israelopalestinese con più attenzione di quella che fino a oggi ha mostrato. E deve lavorare moltissimo per calmare la situazione, per portare alla ragionevolezza le parti attraverso mediazioni non necessariamente pubbliche, perché quelle pubbliche non funzioneranno mai».
«Abbiamo bisogno», ha aggiunto, «di condannare ogni forma di violenza, di isolare i violenti, e di lavorare incessantemente ad un cessate il fuoco. Perché fintanto che le armi parlano non sarà possibile ascoltare le altre voci».
Quindi ha detto: «L’escalation dello scontro era sotto gli occhi di tutti. Ma un’esplosione di tali violenza, dimensioni e brutalità nessuno l’aveva prevista. Questo pone comunque sul tavolo una questione che era stata accantonata: la questione palestinese, che magari qualcuno pensava archiviata. Fintanto che la questione palestinese, la libertà, la dignità e il futuro dei palestinesi non verranno presi in considerazione nelle forme necessarie oggi, prospettive di pace tra Israele e Palestina saranno sempre più difficili».
Parole solo in apparenza scontate, il tema posto, infatti, è quello di una ripresa attiva del negoziato per raggiungere un accordo definitivo senza il quale si potrà assistere solo a lunghi periodi di tregua tra un conflitto e l’altro; il rischio intravisto, insomma, è che quello in corso sia solo un altro sanguinoso capitolo di una storia senza fine.  

Barbarie inaccettabile

ANSA

Certo, va detto che, in questo momento, non si vede un interlocutore all’altezza della situazione da parte palestinese, a partire dalla fragile leadership di Abu Mazen. D’altro canto, si consideri che Hamas non è mai stata presa in considerazione veramente da nessuno sotto questo profilo, e dopo gli ultimi avvenimenti il suo isolamento internazionale è pressoché totale.
Lo stesso Pizzaballa, parlando con l’emittente della Cei, Tv2000, commentava così la strage avvenuta nel kibbutz Kfar Aza compiuta dagli uomini di Hamas: «Sono barbarie ingiustificabili, inaccettabili, moralmente da rifiutare. Esprimiamo solidarietà alle famiglie che hanno perso questo persone condannando in maniera inequivocabile una cosa del genere che non ha comprensione in un contesto cristiano e soprattutto umano».
«È terrorismo islamico? C’è qualcosa nel mondo islamico», ha aggiunto il card. Pizzaballa, «che nutre un pensiero di questo genere. Lo abbiamo visto in Siria e Iraq. Pensavamo di non vederlo qui ma invece è accaduto. C’è certamente una dimensione di odio profondo da parte di Hamas nei confronti di Israele e tutto ciò che è ebraico. Ma questo non è giustificabile. Il dolore dei palestinesi non può giustificare una cosa del genere».
«La via d’uscita», ha detto ancora il patriarca latino di Gerusalemme, «è fermare le armi e cercare di trovare, nel tempo, una via di soluzione per questi 5 milioni di persone che non possono vivere sospesi senza prospettive per il loro futuro come popolo e come nazione».

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