L’artista era stata fermata «per aver sfidato i mandati di abbigliamento islamico della teocrazia». Approvate nuove misure che introducono «pene draconiane» per le donne, ma il presidente iraniano Pezeshkian si oppone: nella Repubblica islamica è braccio di ferro tra poteri (ma l’ultima parola ce l’ha la Guida suprema Khamenei)
Era diventata virale per essersi esibita senza velo in un concerto, trasmesso su YouTube e senza pubblico, che in tre giorni ha raccolto quasi due milioni di visualizzazioni. Per questo il 14 dicembre la cantante iraniana Parastoo Ahmadi è stata arrestata, e poi liberata dopo ventiquattr’ore, «per aver sfidato i mandati di abbigliamento islamico della teocrazia», come ha spiegato il suo avvocato Milad Panahipour all’emittente online Emtedad.
Un fermo lampo – derubricato dalle autorità di Teheran a semplice «convocazione» – che si inserisce nella spirale di repressione in corso nel Paese (almeno) dalla morte di Masha Amini, nel settembre del 2022, e dall’esplosione delle proteste del movimento «Donna, vita, libertà». Se qualcuno aveva ipotizzato che con l’elezione del «progressista» Masoud Pezeshkian sarebbe cambiato qualcosa nella condizione delle donne probabilmente si dovrà ricredere: il 13 dicembre è entrata in vigore una nuova e molto più restrittiva legge sull’obbligo del velo in pubblico.
Ora il neopresidente ha posto il veto e ne ha rinviato l’attuazione, chiedendo ulteriori «limature», ma il presidente del parlamento – l’ultraconservatore Mohammad Ghalibaf – potrà comunque bypassare lo stop presidenziale. In fondo il vero cuore del potere in Iran è la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, e il Consiglio dei guardiani, che è sotto il suo stretto controllo.
Il fermo (e il rilascio) di Parastoo Ahmadi
Non è la prima volta che Parastoo Ahmadi finisce nel mirino delle autorità iraniane. Già nel 2022 dopo una performance dal titolo evocativo – «Dal sangue della gioventù della nazione» – gli agenti di sicurezza l’avevano convocata e la sua casa era stata perquisita. Ora il messaggio lo ha esplicitato lei stessa nei sottotitoli che accompagnano il suo concerto su YouTube: «Sono Parastoo, una ragazza che vuole cantare per le persone che ama. Questo è un diritto che non potevo ignorare: cantare per la terra che amo appassionatamente».
Ma questa terra che ama «appassionatamente» non sopporta persone come lei, libere e belle. Dalla rivoluzione del 1979, in Iran, per le donne è vietato cantare o danzare in pubblico. Esiste un capo d’imputazione specifico: «Attività musicali illecite». Figurarsi se senza velo, come ha fatto Ahmadi. Nel suo video diventato virale in poche ore ha i capelli al vento, le spalle scoperte, il volto libero dall’hijab. E proprio per questo, per un gesto che è stato allo stesso tempo un momento artistico e una sfida, la magistratura della Repubblica islamica ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava che il concerto si era tenuto «senza autorizzazione legale e aderenza ai principi della Sharia» e che saranno prese «misure appropriate» contro la cantante e il suo team.
Dopo poche ore si sono perse le sue tracce, insieme a quelle di Ehsan Beiraghdar e Soheil Faghih-Nassiri, altri due membri della band. Le autorità hanno parlato di una normale convocazione per un «video fuori dall’ordinario», dopodiché la cantante «è uscita dagli uffici accompagnata dalla famiglia», come ha dichiarato il responsabile del dipartimento informazione del comando di polizia della provincia di Mazandaran, nel nord dell’Iran.
Gli artisti nel mirino
Quel che è certo è che il canto, nella Repubblica islamica, è diventato ormai un atto rivoluzionario. Solo lo scorso aprile era stato condannato a morte Toomaj Salehi, il rapper da milioni di follower che dava voce al dissenso in Iran. L’accusa era tra le più infamanti: Fisad fil-arz, «corruzione sulla Terra».
Solo dopo una grossa mobilitazione internazionale lo scorso primo dicembre il cantante è stato scarcerato. Ma non è il solo: anche musicisti come Shervin Hajipour, Mehdi Yarrahi, Saman Yasin sono finiti in passato nella morsa della repressione.
«La legge per la protezione della famiglia»
Mentre l’Iran è alle prese con il confronto a distanza con Israele – con l’Asse della resistenza foraggiato da Teheran che s’indebolisce giorno dopo giorno, e con la caduta di Assad che ha segnato l’ennesimo smacco per il potere della Repubblica islamica in Medio Oriente – in casa le libertà delle donne hanno fatto un ulteriore passo indietro. Il 13 dicembre è entrata in vigore la «legge per la protezione della famiglia tramite la promozione della cultura della castità e dell’hijab». 74 articoli che introducono «punizioni draconiane», come le ha definite l’Iran Human Rights, ong con sede a Oslo, che non faranno altro che rendere la vita delle ragazze «ancora più intollerabile», secondo Amnesty International.
Redatta nel maggio del 2023, approvata dal Consiglio dei guardiani all’inizio di quest’anno e ratificata dal parlamento lo scorso 2 dicembre, la nuova legge è il punto di arrivo della risposta delle autorità di Teheran al clima di proteste scatenato dal movimento «Donna, vita, libertà». Che sulla scia delle manifestazioni seguite alla morte di Masha Amini è partito dalla denuncia della condizione delle donne ma si è esteso presto anche ad altre fasce della popolazione, stanche di una crisi economica diventata sempre più insostenibile.
Frustate e pena di morte
Le nuove misure introducono sanzioni severe per comportamenti quali «nudità, indecenza, mancato uso del velo e abbigliamento inappropriato», che consiste anche nell’utilizzo di vestiti che «contribuiscano o incitino altri a commettere peccato. Quel che ne viene fuori è una complessa rete di multe, pene e punizioni. Oltre al carcere per chi non copre bene il proprio volto con l’hijab (basta anche qualche capello fuori dal velo) sono previste frustate per chiunque «compia pubblicamente atti proibiti» e «offenda la decenza pubblica». Fino alla pena di morte per comportamenti che vengono considerati come «corruzione sulla Terra», un capo d’imputazione così fumoso da poter diventare un pass-par-tout per le esecuzioni capitali.
Vengono poi ampliati i poteri delle forze di sicurezza e dei servizi segreti, oltre che viene garantita impunità totale alla polizia morale, le odiose squadre che setacciano le strade iraniane a caccia di donne vestite male. Il loro, specifica la nuova legge, è un «obbligo religioso». Ci sono poi misure che, oltre a consentire sistemi di intelligenza artificiale e videocamere di sorveglianza per individuare chi trasgredisce, riguardano gli autisti di taxi, i proprietari di hotel e di negozi, che sono obbligati a denunciare eventuali violazioni.
Il veto di Pezeshkian
In tutto questo, il «progressista» Pezeshkian come si comporta? In uno dei suoi primi interventi, in occasione del secondo anniversario della morte di Mahsa Amini, il neopresidente iraniano aveva promesso che avrebbe «fatto in modo che la polizia morale non infastidisca le donne». E anche lo scorso 3 dicembre aveva formalmente criticato la nuova legge, perché «ambigua e di difficile attuazione» e perché potrebbe portare «insoddisfazione e tensione nella società».
Ora con il veto messo da Pezeshkian all’entrata in vigore effettiva delle nuove misure si apre all’interno della Repubblica islamica un braccio di ferro tra poteri sulla pelle delle donne. Ma chi si occupa di Repubblica islamica lo ripete da tempo: il vero cuore del comando, in Iran, è la Guida suprema Khamenei.
Difficile immaginare concessioni e un allentamento della repressione, soprattutto in un momento di crescenti difficoltà al di fuori dei propri confini, che la dissidenza interna sta cercando di sfruttare per dare il colpo di grazia al potere della teocrazia che 45 anni tiene sotto scacco la vecchia Persia.
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