Una vecchia regola non scritta ma ben consolidata della presenza israeliana in West Bank è che ogni attacco terroristico costituisca un lasciapassare per costruire un nuovo edificio nell’insediamento colpito, per legalizzarne di già esistenti, o per colpire i palestinesi potendo contare su una misura di comprensione da parte dell’esercito con la stella di Davide. Maggiore è l’efferatezza dell’evento, più significativa può essere la concessione, la predisposizione dei militari a chiudere un occhio di fronte alle rappresaglie dei coloni ai danni dei palestinesi, o a forzare le loro stesse regole d’ingaggio (come quelle su quali circostanze consentano di aprire il fuoco).

Vittime record

Non ci voleva quindi la sfera di cristallo per prevedere come i fatti del 7 ottobre, che si configurano come l’attacco più sanguinoso della storia del paese, si sarebbero riverberati in West Bank. I massacri di 1.400 israeliani perpetrati da militanti palestinesi di Hamas e di altre organizzazioni hanno provocato, oltre alla violentissima reazione dell’esercito regolare in cui hanno perso la vita circa 10.000 residenti di Gaza, anche un’ondata di violenza in Cisgiordania.

Nell’ultimo mese i palestinesi uccisi da soldati o coloni sono circa 155, un numero enorme anche rispetto agli standard della regione. Lo scorso anno era già stato il più sanguinoso per i palestinesi della Cisgiordania dall’epoca della seconda intifada. Questo lo ha già superato. «Mentre gli israeliani monitorano attentamente il rischio dell’apertura di un fronte settentrionale nella guerra, c’è chi sta deliberatamente incoraggiando l’apertura di un fronte orientale», ha scritto in un editoriale il quotidiano Haaretz.

La natura degli attacchi

Irruzioni nei villaggi con esecuzioni a sangue freddo perpetrate da coloni armati. Attacchi ai contadini impegnati nella raccolta delle olive: in uno di questi episodi è stato ucciso il quarantenne contadino Bilal Saleh, nella zona di Nablus nella West Bank settentrionale, lo scorso 28 ottobre.

Minacce alle comunità palestinesi più vulnerabili, quelle rurali dell’Area C, cioè sotto il controllo sia civile che militare israeliano. Spaventati dalle minacce sempre più concrete dei coloni, e del tutto indifesi, molti di questi pastori palestinesi hanno deciso di fare fagotto e rifugiarsi in luoghi più sicuri.

Presso il villaggio di Qusra, pochi giorni dopo i massacri di Hamas, quattro palestinesi sono stati uccisi dai coloni, e altri due sono stati uccisi il giorno dopo durante il loro corteo funebre. Anche presso il villaggio di as Sawiya gruppi di coloni hanno bloccato una strada per impedire l’ingresso di veicoli diretti a celebrare un funerale. Non è mancato anche il rapimento di un civile palestinese, prontamente liberato dall’esercito israeliano.

«Avete voluto la guerra, ora aspettatevi la grande Nakba», recitano dei volantini diffusi da gruppi di estremisti israeliani, alludendo alla fuga di 700.000 palestinesi durante la guerra d’indipendenza israeliana del 1948. «Vi diamo l’ultima possibilità di fuggire in Giordania in modo ordinato prima di espellervi con la forza dalle nostre terre sante lasciateci in eredità da Dio». In questo clima infuocato è inevitabile si impenni anche il numero di palestinesi che muoiono durante scontri con l’esercito regolare israeliano.

Processo in fieri

L’aumento dell’aggressività dei coloni nel contesto della sempre più plateale inazione dell’esercito israeliano era un fenomeno ampiamente in crescita già prima del 7 ottobre. Per la prima volta nella storia del paese il governo attualmente in carica conta nelle proprie file dei rappresentanti delle frange di coloni estremisti violenti, il che può garantire un livello di protezione rispetto alle conseguenze legali dei loro attacchi. E creare un clima di impunità diffusa.

Come detto, anche prima della guerra attuale l’anno in corso sembrava destinato ad affermarsi come il più violento dalla seconda intifada. In febbraio, dopo un attentato, una spedizione punitiva di israeliani estremisti aveva messo a ferro e fuoco la cittadina palestinese di Hawara, nuovo epicentro delle tensioni in West Bank. Un episodio simile si è consumato in estate presso il villaggio dei palestinesi americani, quello di Turmus Ayya.

I due uomini chiave nel governo per i coloni sono i ministri Itamar Ben Gvir, alla Sicurezza pubblica, e Bezalel Smotrich, alle Finanze. La settimana scorsa è stato poi nominato Zvi Sukkot, un deputato del partito oltranzista Sionismo religioso, a capo di un comitato della Knesset dedicato alla Cisgiordania. Sukkot risiede a Yitzhar, un insediamento nella West Bank settentrionale che negli anni si è guadagnato la nomea di essere il più violento ed estremista dei territori palestinesi occupati.

Diffusione di armi

All’indomani dell’attacco del 7 ottobre, è molto forte la spinta per armare un numero maggiore di civili israeliani, il che potrebbe ulteriormente aggravare la situazione in West Bank. «C’è stato un massiccio aumento, credo fra il 300 per cento e il 500 per cento, delle richieste di permesso di porto d’armi. Persone che non si sarebbero mai sognate di portare un’arma ora invece ne sentono il bisogno», dice Yigal Palmor, ex portavoce del ministero degli Esteri israeliano.

Alcuni dei villaggi al confine con Gaza sono stati in grado di difendersi lo scorso 7 ottobre grazie alle cosiddette “kitot konenut”, delle unità di civili armati responsabili della difesa delle comunità in caso di attacco. «Il governo ora sta creando kitot konenut ovunque, anche a Tel Aviv. E le sta dotando di armi. La società in generale sarà più armata, più dura e sospettosa nei confronti dei palestinesi», continua Palmor.

La Casa Bianca ha voluto rassicurazioni quanto alle decine di migliaia di fucili d’assalto e armi semiautomatiche fornite a Israele, chiedendo che finiscano nelle mani della polizia e non in quelle dei gruppi estremisti in Cisgiordania. Malgrado le preoccupazioni espresse da Washington, tuttavia, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non si è ancora espresso sull’impennata delle violenze degli estremisti nella regione. Forse per paura di irritare gli alleati di coalizione.
 

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