Dall’inizio di luglio migliaia di persone in Bangladesh stanno protestando contro il governo in carica guidato da Sheikh Hasina (76 anni), la donna che dal 2009 occupa la carica di prima ministra di una delle economie più vibranti del continente asiatico.

Lo scorso anno il paese ha registrato una crescita del Pil superiore al 7 per cento, ma dietro agli indicatori economici il risentimento è montato fino a esplodere in scontri di piazza molto violenti che hanno causato la morte di più di cento manifestanti. I feriti si contano nell’ordine delle migliaia e il bilancio è destinato a salire.

I primi a scendere in strada sono stati gli studenti e le studentesse universitarie denunciando il ritorno del sistema delle quote nell’assegnazione di posti di lavoro nell’amministrazione pubblica.

La legge in materia, sospesa nel 2018 proprio in seguito ad altre proteste oceaniche, è tornata in vigore alla fine di giugno e prevede che più della metà di tutti i «posti fissi statali» bangladesi siano riservati a categorie specifiche individuate, in teoria, tra gli strati più svantaggiati della società: 10 per cento alle donne, 10 per cento a chi proviene dai distretti economicamente meno sviluppati, 5 per cento alle comunità indigene, 1 per cento alle persone con disabilità e 30 per cento ai parenti dei «freedom fighter» morti durante la guerra di indipendenza dal Pakistan nel 1971.

I movimenti studenteschi che si oppongono al governo Hasina vogliono l’abolizione di quest’ultima quota, considerata un favoritismo pensato per ricompensare chi sostiene l’Awami League, il partito fondato dal padre della prima ministra Hasina, Sheikh Mujibur Rahman, eroe dell’indipendenza bangladese e primo premier del Bangladesh.

Per la gioventù bangladese un posto fisso nell’amministrazione pubblica è il lavoro dei sogni, poiché garantisce una stabilità economica impensabile per la maggioranza dei cittadini e delle cittadine.

Ogni anno la macchina statale bangladese organizza concorsi pubblici a cui partecipano più di quattrocentomila studenti e studentesse provenienti dagli atenei di tutto il paese.

Tolte le quote, le assegnazioni in base al merito sono solo tremila.

Le manifestazioni sono state represse con violenza dalla polizia e dai corpi speciali dell’esercito che il governo ha mandato per le strade a sedare la rivolta.

Le foto e i video diffusi sui social network mostrano una Dhaka, la capitale dei Bangladesh, nel caos: i manifestanti hanno dato alle fiamme automobili, autobus e la sede della tv di stato bangladese; la polizia ha risposto sparando proiettili di gomma e lacrimogeni ad altezza d’uomo e instaurando una specie di legge marziale non dichiarata in tutte le principali città del Bangladesh.

Blackout

EPA

Dalla sera di giovedì 18 luglio l’esecutivo ha sospeso tutte le telecomunicazioni, imponendo a 170 milioni di persone un blackout totale di telefono e internet. Diverse persone di nazionalità bangladese residenti all’estero hanno confermato a Domani di non riuscire a contattare amici e familiari da 72 ore. Prima del blackout, le testimonianze di persone residenti a Dhaka raccontavano scene di violenza, distruzione e paura.

Oltre alle squadre anti sommossa della polizia bangladese, sono scesi in strada anche i gruppi studenteschi della Bangladesh Chhatra League (la Lega degli studenti del Bangladesh), l’organizzazione universitaria dell’Awami League, che secondo le testimonianze raccolte da Domani, hanno dato la caccia ai manifestanti armati di mazze e bastoni.

Gli stessi studenti avrebbero anche organizzato dei posti di blocco informali nelle vie che circondano il campus di Dhaka University, l’epicentro delle proteste, per perquisire i passanti.

Questa esplosione di violenza segnala un risentimento che va ben oltre la questione delle quote nell’amministrazione pubblica e rispecchia una crisi democratica preoccupante.

L’ultima tornata elettorale, conclusa nel gennaio del 2024, ha registrato la peggiore affluenza alle urne nella storia del Bangladesh, inferiore al 42 per cento.

Questo perché le opposizioni, guidate dal Bangladesh Nationalist Party (Bnp), avevano deciso di boicottare il voto in risposta alla campagna repressiva che il governo Hasina aveva scatenato contro i suoi avversari politici.

Durante la campagna elettorale la polizia aveva arrestato migliaia di sostenitori del Bnp, con altre centinaia di migliaia di politici e attivisti impegnati a difendersi nelle aule di tribunale in processi che, secondo le opposizioni, avevano unicamente lo scopo di paralizzare le attività del Bnp.

La comunità internazionale aveva lanciato l’allarme e molte ong – comprese Amnesty International e Human Rights Watch – da anni denunciano la condotta violenta delle forze dell’ordine bangladesi, accusate di violazione dei diritti umani e di tortura, formalmente illegale in Bangladesh dal 2013.

Nonostante i «moniti» per il rispetto dei diritti umani e del dissenso, le elezioni bangladesi si sono tenute comunque e, pur confermando per la terza volta consecutiva Sheikh Hasina, non hanno fatto altro che aumentare la tensione nel Paese.

Tensione che la stessa Hasina, durante queste proteste, non ha contribuito ad allentare, accusando i manifestanti di essere dei «razakar», cioè il nome con cui alla fine degli anni Sessanta venivano chiamati i collaborazionisti bangladesi di Islamabad.

Con decine di morti sul campo, città in fiamme e gli ospedali incapaci di occuparsi di migliaia di feriti, il governo Hasina vuole aprire un tavolo delle trattative coi manifestanti per ragionare sulle quote dell’amministrazione pubblica.

Offerta che gli studenti e le studentesse hanno rimandato al mittente.

La protesta non è più solo per le quote e prima di sedersi a un tavolo i manifestanti vogliono che chi ha ucciso i ragazzi e le ragazze scese in strada venga arrestato e punito. E che Sheikh Hasina si faccia da parte, come da giorni canta chi ancora occupa le strade del Bangladesh. La polizia ha instaurato un coprifuoco in tutto il paese e ha detto che se le proteste non finiranno sarà costretta a usare «il massimo della forza a disposizione».

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