La comunità cristiana della città, una delle più numerose della Cisgiordania, ha deciso di sospendere ogni celebrazione pubblica e ogni rituale che fino a due anni fa era parte del Natale di tutta Betlemme, anche della comunità di fede islamica o copta
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Betlemme è buia. Non ci sono addobbi, né luminarie, né festoni colorati. Per di più, i caratteristici negozietti di souvenir in legno sono tutti chiusi, perché mancano i turisti. La guerra ha praticamente annullato la presenza di fedeli che, specialmente a Natale, accorrevano per visitare la basilica della Natività, il luogo in cui si crede sia nato Gesù, e l’economia della città ne ha risentito tantissimo.
Queste feste, dunque, saranno più dimesse per tutti. La comunità cristiana della città, una delle più numerose della Cisgiordania, ha deciso di sospendere ogni celebrazione pubblica e ogni rituale che fino a due anni fa era parte del Natale di tutta Betlemme, anche della comunità di fede islamica o copta. Ma ai palestinesi lo spirito di adattamento non manca. E a Betlemme c’è chi coglie l’opportunità per vivere questi giorni più intimamente.
Le tradizioni da proteggere
«Stiamo tornando a tradizioni antiche, perché mai come ora ci sembra importante salvaguardare la nostra identità», spiega Yehudit Salman, cristiana nata e cresciuta a Betlemme che vende frutta a verdura al mercato centrale. E la cultura di un popolo passa soprattutto dalla sua cucina. «In questi ultimi giorni c’è leggermente più fermento al bancone», dice Salman, «perché le famiglie cominciano a fare provviste per Natale e il lavoro è più intenso del solito». Anche lei, seduta davanti a una tazza di tè con la figlia Samela, segna su un quadernetto l’elenco dei piatti da cucinare entro il 24 dicembre.
Sulla tavola delle feste sicuramente non può mancare il mansaf, il più tipico dei cibi della Palestina. «Hummus e falafel si possono mangiare anche in Israele», spiega Salman, «mentre il mansaf no, perché gli ingredienti non sono compatibili con le regole dell’alimentazione kosher». Il mansaf è preparato con carne d’agnello cotta con il ghee (burro chiarificato), le cipolle e lo za’atar (miscela di erbe aromatiche). Una volta cotta, la carne viene poi servita con il riso, lo yogurt naturale intero e le mandorle tritate.
«Un altro piatto tipico delle feste è la maqloubah, che vuol dire rovesciata», spiega ancora Salman. «Si chiama così perché il pentolone si capovolge letteralmente sul piatto, così che tutte le verdure che cuociono sul fondo fanno da copertura al riso». Gli ingredienti sono semplici: riso, pollo o agnello, a seconda delle varianti, melanzane, pomodori, spezie come cardamomo, pepe, noce moscata o curcuma e poi olio extra vergine d’oliva, e mandorle.
Come tutti i classici piatti della tradizione di un popolo, ogni famiglia ha la sua ricetta con piccole variazioni di ingredienti o di procedimento. Ma, d’altronde, è proprio questo il bello della cultura del cibo, che raccoglie mille sfaccettature per raccontare, poi, lo stesso amore. «A casa mia, alla fine della preparazione, si aggiunge anche un po’ di yogurt bianco, per dare un tocco di acidità», spiega Salman.
Stare insieme
In questo periodo di guerra, con la crisi economica legata al crollo del turismo, moltissime persone hanno avuto bisogno di aiuto. E a Betlemme, anche se non c’è aria di festa, si cerca ugualmente di stare insieme per aiutarsi. «Quest’anno stiamo combinando le nostre attività natalizie con un’attenzione particolare ai veri valori del Natale: speranza, unità e pace», racconta Yara van Teeffelen, una ragazza cristiana, metà palestinese e metà olandese. Van Teeffelen lavora nella casa della Comunità Dar Al Majus dell’associazione Pro Terra Sancta Bethlehem come coordinatrice culturale e della comunicazione.
«Il centro sociale Dar Al Majus si trova proprio vicino alla chiesa della Natività di Betlemme», spiega Yara, «e in questo anno così difficile è stato un luogo di aggregazione». Al centro si offre sostegno psicologico, si aprono corsi di formazione professionale e si fanno attività culturali. «Aiutiamo le persone della nostra comunità, in particolare i gruppi vulnerabili», dice ancora Yara. «Ci concentriamo sull’incontro tra le persone, offrendo uno spazio sicuro per la creatività e l’empowerment. E la cucina è proprio una delle migliori attività per stare insieme e guarire dal dolore».
I laboratori dove si impasta e si assaggia diventano occasione di incontro, non importa quale sia la religione che si professa. E anche per questo secondo Natale di guerra, dunque, il cibo diventa unione. «Le pietanze della tradizione cristiana hanno un ruolo importante nelle nostre tradizioni natalizie. Qui le famiglie preparano piatti come l’agnello arrosto, le verdure ripiene», spiega van Teeffelen. «Come il qidreh, che è un riso con carne di agnello e molto aglio. A casa mia, prepariamo cosce d’agnello ripiene di foglie d’uva e zucchine. Le foglie d’uva e le zucchine vengono farcite con un mix di carne macinata, riso e spezie».
Mancano pochi giorni al Natale, i preparativi per il pranzo della vigilia e del 25 sono quasi ultimati, anche se è tutto diverso. Fino a due anni fa il 24 dicembre c’era la parata degli scout di tutta la Palestina che marciavano per le strade di Betlemme suonando tamburi e cornamuse. Quello è sempre stato un appuntamento importante per tutta la città, che si radunava nelle strade del centro per assistere. Oggi ognuno resta a casa propria.
«È difficile sentire il solito spirito natalizio quando intorno a noi c’è così tanto dolore e sofferenza», aggiunge van Teeffelen il cui papà, che ha vissuto tra Betlemme e Rotterdam, ha appena scritto un libro sulla vita sotto l’occupazione, provocatoriamente intitolato Gesù è nato in Palestina.
Per i pranzi e le cene di Natale non possono certo mancare i dolci. E così, su tutte le tavole di Betlemme compaiono i ma’amoul, biscotti di pasta frolla ripiena di datteri o noci, e il knafeh, una pasta kataifi infarcita di formaggio e sciroppo. Per il ripieno si usano metà ricotta e metà mozzarella dura o formaggio di Nablus, perché deve filare e sciogliersi in bocca. Si mangerà, ma senza dimenticare la guerra a Gaza.
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