La conferenza stampa al termine del vertice Nato di Washington era molto attesa non solo per i risultati che avrebbe prodotto l’incontro tra trentuno capi di stato e di governo, ma soprattutto per capire come se la sarebbe cavata Joe Biden di fronte ai giornalisti. Senza l’aiuto del gobbo elettronico che lo accompagna anche negli eventi con poche persone.

Anche se il presidente ha mostrato la sua profonda conoscenza e padronanza dei temi che riguardano le relazioni internazionali americane, ha inanellato due gaffe non da poco: in una si è riferito al presidente ucraino Volodymyr Zelenskji come al presidente Putin, nell’altra a Kamala Harris come al vicepresidente Trump, che lui avrebbe scelto perché «molto qualificata per fare il presidente».

Questo però non è bastato minimamente a tranquillizzare la totalità dei democratici: tre deputati hanno annunciato nelle ore successive di essere a favore di un cambio di candidato per le presidenziali di novembre, a cui si è aggiunta la deputata Brittany Petersen del Colorado nella mattina di venerdì.

Chi lo molla

Sempre nella giornata di venerdì c’è stato il congelamento di 90 milioni di dollari raccolti dal Super Pac Future Forward fintanto che Biden rimarrà alla testa del ticket democratico, una scelta condivisa con i grandi finanziatori che avevano promesso l’ingente quantità di denaro. Infine, durante un incontro alla Casa Bianca dove il presidente ha incontrato il leader dem alla Camera dei rappresentanti Hakeem Jeffries per parlare della situazione al Congresso, quest’ultimo si è rifiutato con decisione di offrire il suo endorsement incondizionato, l’ennesimo segnale preoccupante per Biden.

Una situazione che sta diventando sempre più insostenibile e che, a ben vedere, corona in modo inglorioso una carriera da gaffeur per l’attuale presidente, che nei suoi trentasei anni da senatore del Delaware era stato definito “gaffe-machine”. Sin da quando, durante la prima candidatura alla presidenza, nel 1988, era stato pizzicato nel suo plagio di un intero discorso dell’allora leader laburista britannico Neil Kinnock.

I precedenti

Nel periodo della campagna elettorale da vicepresidente nel 2008, poi, Biden aveva invitato il senatore dem Bob Graham ad alzarsi in piedi, anche se era paraplegico dall’età di 16 anni in seguito a un incidente stradale.

Due anni più tardi aveva fatto le sue condoglianze al premier irlandese Brian Cowen per la perdita di sua madre, mentre invece era scomparso da poco suo padre. Durante la campagna elettorale del 2020, poi, si era più volte riferito al suo caro amico James Eastland, senatore del Mississippi, con cui aveva avuto una cordiale relazione lavorativa e personale. Peccato che Eastland sia stato uno dei senatori più violentemente razzisti della storia recente, apologeta della segregazione razziale e anche noto per il suo strisciante antisemitismo.

Non esattamente un modello d’inclusività. A questo punto del 2024 però c’è di più: grazie al suo acume politico, spesso Biden aveva saputo trasformare questi tremendi scivoloni in momenti di calore umano e di simpatia. Adesso però ogni gaffe viene collegata alla sua possibile senescenza e ogni nuovo evento a cui parteciperà verrà messo sotto analisi allo stesso modo.

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La posizione dei media

Mentre le pressioni nei confronti del presidente crescono fino a coinvolgere, secondo alcune ricostruzioni, anche l’ex presidente Barack Obama, c’è da chiedersi come mai per così tanti mesi la stampa mainstream americana sia andata così leggera nell’analizzare la crescente serie di bisticci verbali del presidente uniti a episodi di vera e propria senilità conclamata.

Per gli esponenti conservatori trumpiani, la risposta è semplice: la maggior parte delle testate è vicina ai dem e così hanno “complottato” per coprire il presidente. Una risposta decisamente facilona e poco realistica, dato il tenore degli articoli pubblicati nelle ultime settimane da parte di giornali vicini al mondo progressista come il New York Times e il Washington Post, entrambi violentemente antitrumpiani.

Qual è la risposta, dunque? Un’interessante analisi è offerta proprio da un’editorialista del Washington Post, Megan McArdle: nessunissima cospirazione, questo è certo, ma c’è stata una certa arrendevolezza nei primi anni nel non approfondire i motivi per cui il presidente stava sempre più nascosto dai riflettori e dalle interviste, ma anche nel capire perché gli scivoloni verbali fossero sempre più frequenti.

Qualora si fosse trattato di Trump, secondo McArdle, i giornalisti sarebbero stati indubbiamente più aggressivi. Però c’è anche un tema che riguarda il cerchio magico dei portavoce della Casa Bianca: il team che fa capo al presidente è stato particolarmente bravo nei primi tre anni a stroncare sul nascere qualsiasi dubbio, semplicemente isolando chi scriveva qualcosa di scomodo sul declino cognitivo di Joe Biden.

Una strategia che per quanto assolutamente silente e non violenta, ricorda in modo sinistro il rapporto conflittuale del team di Donald Trump contro la stampa “liberal”. Decisamente non un buon finale per chi aveva promesso di voltare pagina dopo gli anni divisivi del trumpismo.

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