Il capo di stato Usa cerca di rafforzare la sua leadership compensando i problemi interni con l’autorevolezza in politica internazionale. La strategia “trumpiana” dei suoi fedelissimi contro i dissidenti, accusati di “slealtà”. Anche l’attore si smarca con un commento sul NYT
Con un discorso potente all’assemblea per i settantacinque anni della Nato e con un’inattesa conferenza stampa nella giornata di oggi, il presidente americano Joe Biden sta cercando di contenere una volta per tutte gli sforzi di chi, all’interno del partito democratico, vuole spingerlo a un ritiro. Fino ad ora la strategia del contenimento aveva preso una piega populista, con il presidente pronto ad accusare, ignorando il senso del ridicolo, una presunta élite democratica contro di lui composta da grandi donatori e firme dei maggiori giornali.
I trenta leader globali convenuti al meeting però si stanno preparando a un secondo mandato di Donald Trump che lascerebbe l’Europa alle prese nuovamente con il tycoon. Proprio per questo Biden sta cercando di convincere gli alleati che lui è l’unico che può tenere insieme la Nato e che c’è un largo consenso “bipartisan” per mantenerla ma che il mondo «sarebbe in pericolo» senza di essa.
Velata allusione all’intenzione trumpiana di ridimensionare gli impegni americani al suo interno. Ad ogni modo già al G7 italiano di giugno, le capacità mentali di Biden sembravano molto ma molto ridimensionate rispetto ad altri incontri. Il presidente però per rilanciare la sua leadership ha annunciato la consegna di nuovi sistemi difensivi antiaerei all’Ucraina da parte di cinque paesi Nato (Italia inclusa) e ha definito quale “irreversibile” il percorso di Kiev all’interno dell’Alleanza Atlantica. Anche qualora i capi di stato e di governo stranieri si convincessero delle piene capacità del presidente, quanto di tutto questo interesserebbe agli elettori? Il senso comune degli strateghi elettorali è: molto poco.
Sguardo interno
I sondaggi però restituiscono un quadro più incerto e frammentato: una rilevazione del Pew Research Center dava come prioritario il rafforzamento delle forze armate solo per il 40 per cento degli elettori, mentre un’altra analisi di Associated Press affermava che per il 38 per cento degli americani la politica estera è una delle priorità da affrontare nel 2024. In passato però la politica estera ha avuto un suo peso: la percezione che l’Unione Sovietica stesse recuperando terreno sugli Stati Uniti è stato uno degli elementi decisivi per la vittoria a valanga di Ronald Reagan nel 1980.
In anni più recenti, la gestione disastrosa della guerra in Iraq ha spinto un outsider come Barack Obama a trionfare alle elezioni del 2008, portando a un crollo dei voti per il partito repubblicano. Prima del dibattito del 27 giugno scorso però, una ricerca condotta dal professor Jeffrey Friedman del Dartmouth College riteneva già che Biden, pur avendo la necessaria esperienza e competenza per fare le scelte migliori per gli interessi americani, era troppo vecchio per farlo con efficacia, mentre Donald Trump, anche lui non giovanissimo, evita questa percezione a causa del suo atteggiamento combattivo.
Forse è anche per questo che l’attuale inquilino della Casa Bianca ha cambiato radicalmente atteggiamento rispetto al 2020, quando si proponeva come leader “unificante” per «sanare le piaghe dell’America». Adesso ha pienamente fatto suo l’aspetto imperiale della presidenza: non ha mai minimamente ceduto ai dubbi, si è rinchiuso alla Casa Bianca circondato dai fedelissimi capitanati dal suo stratega capo Mike Donilon ed ha attaccato comici televisivi come Jon Stewart, i media liberal come il New York Times e il Washington Post, così come i deputati che hanno osato esprimere preoccupazione per il suo effettivo stato di salute, sul quale grava l’ulteriore ombra delle numerose visite di un medico esperto di Parkinson negli ultimi mesi. L’accusa per tutti è la stessa: di “slealtà” e di intelligenza con il nemico Donald Trump.
Una retorica binaria che è tranquillamente sovrapponibile con quella del tycoon, culminata con la sfida a «farsi avanti» alla convention. Almeno per ora, quest’atteggiamento sprezzante ha fermato l’emorragia tra gli eletti, ma è tutt’altro che certo che abbia avuto effetti significativi tra gli elettori. David Wasserman, analista di Cook Political Report, ha scritto che "il calo di Biden dopo il dibattito rappresenta il più grande cambiamento nei sondaggi dell'anno», con Trump che ha un vantaggio su Biden 47 a 44 per cento, secondo la nuova media dei sondaggi nazionali. «I numeri attuali di Trump tra gli elettori neri e latini sono incompatibili con qualsiasi scenario plausibile di vittoria democratica», ha concluso Wasserman.
Ambiguità
Anche se l’ipotesi aperta ribellione sembra scongiurata, il brontolio dei potenti sta continuando, spinto da ambigue dichiarazioni come quella dell’ex speaker Nancy Pelosi, che ha detto che il presidente deve prendere una decisione definitiva perché «il tempo sta finendo», pur precisando che lo sosterrà in qualsiasi caso. Ben più pesante dal punto di vista mediatico invece l’affermazione fatta da George Clooney in un editoriale sul New York Times.
L’attore hollywoodiano, pur dicendo di sostenere il presidente da sempre, ha detto che la persona vista a Los Angeles tre settimane fa è la stessa del dibattito con Trump del 27 giugno e che per tanto, anche se il processo può essere «doloroso», deve essere sostituito. Dichiarazione questa, che può fare ulteriormente intestardire Biden che può rafforzare la sua nuova immagine di presidente «in lotta contro le élite».
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