L’amministrazione Biden ha fretta di espandere le operazioni americane in Ucraina prima che Donald Trump si insedi alla Casa Bianca e cambi linea sul conflitto.

Ci sono 7 miliardi di armamenti allocati dal Pentagono e 2 miliardi di contratti per servizi militari vari che non sono stati ancora spesi, e alla Casa Bianca è iniziato il conto alla rovescia per dare a Volodymyr Zelensky tutto ciò che è possibile per evitare che la posizione negoziale di Kiev nei confronti della Russia si indebolisca.

E per impedire a Trump di costringere l’alleato a cedere alle pressioni russe diminuendo troppo rapidamente i flussi delle forniture.

Il Pentagono sta inviando 500 missili per il sistema di difesa Patriot. Il materiale dovrebbe arrivare nel giro di alcune settimane e assicurare all’esercito ucraino di potersi adeguatamente difendere fino alla fine dell’anno dagli attacchi dei droni di Mosca, che si sono intensificati negli ultimi giorni, in concomitanza con le elezioni americane, il cui esito è certamente il più gradito a Vladimir Putin.

Funzionari militari americani hanno fatto sapere che l’impatto di questi trasferimenti sulle riserve di armamenti americane è «una grande preoccupazione», segno che l’Amministrazione, preoccupata dalla transizione alla Casa Bianca, sta accelerando più di quanto avrebbe fatto in caso di una vittoria democratica.

«La Crimea è andata»

Trump ha promesso di fare terminare rapidamente la guerra e ha detto che ha già un piano per farlo, di cui naturalmente non ha voluto svelare i dettagli. Qualunque sia questo piano, ammesso che esista, coinvolge anche Elon Musk, il proprietario del sistema satellitare Starlink che è una tecnologia decisiva per l’Ucraina, che con mossa irrituale (ma non inedita per Trump) è anche intervenuto in una telefonata con Zelensky.

Non si sa cosa si siano detti, ma non è un mistero quello che pensa Musk del futuro del conflitto, perché lo ha scritto su X: «Le uccisioni insensate devono finire. Il tempo per gli speculatori guerrafondai è finito». Non è il messaggio di chi intende impegnarsi a oltranza per la difesa dell’alleato, figurarsi per metterlo in condizione di contrattaccare.

L’impostazione è confermata anche da Bryan Lanza, stratega repubblicano e uno dei principali consiglieri di politica estera di Trump durante la campagna.

In un’intervista alla Bbc, Lanza ha detto che l’Amministrazione che si insedierà a gennaio chiederà a Zelensky la sua versione di una «visione realistica della pace». «Se il presidente si siede al tavolo e dice, dunque, si può arrivare alla pace soltanto se abbiamo la Crimea ci dimostrerà che non è serio. La Crimea è andata», ha concluso.

Per segnalare l’urgenza del momento Biden ha fatto anche un’ulteriore apertura: ha autorizzato la missione di contractor del governo per la manutenzione e riparazione del sistema Patriot e dei caccia F-16, le armi più potenti che l’America ha offerto e anche le più bisognose di personale specializzato. Da mesi Kiev chiede alla Casa Bianca aiuto su questo fronte, ma Biden ha finora rifiutato: l’invio di contractor americani sul campo è un passo simbolicamente rilevante nel coinvolgimento diretto degli americani. Con l’incombere di Trump, il presidente ha rotto gli indugi.

Il governo ucraino, dal canto suo, vorrebbe anche di più, e chiede altri missili Atacms, quelli in grado di colpire in profondità nel territorio russo. Armi che evidentemente Zelensky teme di non ricevere più in futuro. Per il momento Biden non ha accolto la richiesta: se lo farà nei prossimi giorni o settimane, sarà il segno che la preoccupazione è in aumento.

Il piano di rimpatrio

Il presidente eletto e il team della transizione si stanno muovendo su diversi fronti. La nomina di Susie Wiles come capo di gabinetto ha dato di fatto il via al processo di selezione della squadra di governo. Com’è normale in questa fase, circolano a briglia sciolta i nomi più disparati per le varie segreterie e agenzie, e fra questi c’è anche quello del senatore Marco Rubio per la segreteria di stato, scelta che sarebbe clamorosa se si pensa al curriculum da falco internazionalista di Rubio, che al netto di recenti riposizionamenti tattici è sempre stato in aperto contrasto con la prospettiva nazionalista e isolazionista di Trump.

Sul tavolo c’è anche il piano per rimpatriare gli 11 milioni di immigrati irregolari presenti che vivono negli Stati Uniti, probabilmente l’iniziativa di cui il rieletto presidente ha parlato di più durante la campagna.

I consiglieri presidenziali stanno discutendo le misure da prendere una volta insediata l’amministrazione. Fra queste ci sarebbe una dichiarazione di emergenza nazionale che permetterebbe al governo di usare le forze militari per arrestare e deportare gli immigrati. Poi si tratta anche di cancellare le norme imposte dall’amministrazione Biden che indicano alle forze dell’ordine di non perseguire immigrati clandestini che non hanno commesso altri reati.

Trump ha detto che il piano di rimpatrio comincerà dai 1,3 milioni di clandestini che hanno già ricevuto un foglio di via definitivo da parte di un tribunale dell’immigrazione e da chi ha commesso reati.

E anche il riassetto del sistema delle corti che si occupa di reati migratori è al centro delle attenzioni degli uomini di Trump.

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