Cresce nei media e nei leader politici degli Stati Uniti il timore per la spirale di forte polarizzazione, toni eccessivi e retorica radicale che sta facendo deragliare dai binari del reciproco riconoscimento la politica americana. Così il presidente Joe Biden ha vestito i panni del pompiere e ha cercato di spegnere le fiamme della polemica politica prima che divengano incontrollabili e possano bruciare i ponti delle comunicazioni tra i due partiti storici.

«L'attentato a Donald Trump impone a tutti noi un passo indietro», ha detto a chiare lettere Joe Biden in un discorso alla nazione dopo l'attacco all'ex presidente in Pennsylvania. «Non siamo nemici, siamo tutti americani», ha aggiunto per cercare di abbassare la temperatura. «La violenza politica non può essere normalizzata. La posta in queste elezioni - ha proseguito il presidente americano, 81 anni - che non è mai stata così alta, ci credo con tutto il mio cuore, ma dobbiamo abbassare i toni.

La politica non può essere un campo di battaglia. Le decisioni si prendono nelle urne, con il voto, e non con le pallottole». Parole di buon senso, ma che non raccontano fino in fondo i toni accesi dello scontro a cui sono giunte le due parti politiche che si confrontano negli Usa per la conquista delle chiavi della Casa Bianca, luogo del potere imperiale dell’occidente. Biden inoltre parlerà alla nazione dallo Studio Ovale, in serata, sempre sull'attentato a Trump.

Bagno di sangue

Cosa faranno ora i repubblicani riuniti nella convention a Milwaukee per la nomination di fronte a questo appello di Biden? Abbasseranno i toni come richiesto dal loro presidente oppure sfrutteranno l’occasione per accusare i democratici di aver demonizzato il candidato Trump come una minaccia per la democrazia e di renderlo un bersaglio della violenza politica? Bersaglio che secondo i seguaci dell’ex presidente è scampato alla morte solo grazie alla “mano di Dio” che ha deviato la pallottola fatale.

Trump, a sua volta, si è spesso rivolto in passato a una retorica violenta nei suoi discorsi elettorali, usando la parola «bagno di sangue», etichettando i suoi presunti nemici come «parassiti» e «fascisti» e accusando Biden, senza addurre prove, di una cospirazione per rovesciare gli Stati Uniti incoraggiando l’immigrazione clandestina. Il team elettorale di Biden a sua volta ha descritto Trump come un pericolo per la democrazia soprattutto dopo l’assalto a Capitol Hill. Insomma non sono mancati i colpi bassi sotto la cintura.

Eppure Biden, di fronte al tentativo di attacco a Trump, che tenta di unificare la nazione divisa e consolare gli americani disorientati, non convince del tutto per tutta una serie di buone ragioni. Innanzitutto appare un tentativo tardivo, un po’ disperato e anche poco credibile quando dice, ad esempio, che la violenza è antitetica al progetto politico americano. Non è esattamente così.

Non solo per la lunga striscia di sangue di attentati (riusciti o meno) ai presidenti, da Lincoln a John Kennedy, da Ronald Reagan a Teddy Roosevelt. In un secolo e mezzo sono ben cinque i leader assassinati: Abraham Lincoln, James Garfield, William McKinley, John Kennedy e suo fratello minore Robert, nel 1968 a Los Angels dopo aver vinto la nomination democratica che gli avrebbe aperto la via della presidenza.

Guerra civile irrisolta

Che il ricorso all’assassinio del Commander in chief non faccia parte della vita politica americana è difficile da contestare. Non solo. Gli Stati uniti d’America nascono con una ribellione al governo britannico e grazie all’appoggio militare francese, e da colonie di sua maestà si trasformano, dopo una guerra sanguinosa che vide anche l’incendio di Washington da parte delle truppe inglesi, in piccoli stati sovrani prima e poi in uno stato federale.

Ma nel 1861 scoppia la guerra civile tra il Nord democratico e il Sud schiavista, un conflitto devastante che termina solo nel 1865 e che non è mai stato del tutto risolto. Per non parlare del mito della frontiera a Ovest, dove il diritto ad essere armati e a difendersi in prima persona, prima dai nativi americani e poi da nemici in genere, si radica nel carattere identitario della giovane nazione. Carattere identitario di tipo democratico e repubblicano definito da Alexis de Tocqueville nel suo famoso libro Démocratie en Amérique ma il cui autore oggi forse farebbe fatica a riconoscere in questa competizione radicale tra due fazioni che non sembrano più riconoscersi legittimità a vicenda di poter governare sui destini della nazione.

Per Mario Del Pero, senior associate research Fellow dell’Ispi di Milano, l’attentato a Trump è solo la punta dell’iceberg e «la violenza è stata storicamente una delle variabili cruciali nella parabola della democrazia statunitense, aumentando d’intensità nei suoi momenti di crisi provocati da conflitti sociali, razziali e politici». Forse Biden deve fare qualcosa di più «per abbattere le conseguenze di questa delegittimazione della politica che ha creato un terreno di coltura ideale per questa violenza politica». Bandire genericamente l’uso della violenza non basta più per invertire la rotta.

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