Era il leader di un’America gentile che non si imponeva. Fu considerato debole, ma è stato l’ex presidente più di successo della storia americana. Alla fine ha ottenuto il rispetto anche dei suoi avversari. Solo la figura di Robert Kennedy può essergli accostata
Intervistato già molto anziano su come avrebbe voluto essere ricordato, Jimmy Carter non rispose di getto, come fanno con battute i leader attuali, ma abbassò lo sguardo e ci pensò su. Poi rialzò i suoi occhi azzurri e disse: «Vorrei essere ricordato come un buon nonno e un buon padre».
Dopo un altro minuto di silenzio aggiunse: «Per sintetizzare direi uno che ha sempre proposto pace e diritti umani». Seguì altro silenzio pensoso e alla fine: «Direi che pace e diritti umani possano bastare».
Jimmy Carter è morto a 100 anni lasciando dietro di sé la migliore eredità possibile per un leader della più grande potenza mondiale. Solo che tale eredità è stata accumulata dopo i 4 anni alla Casa Bianca e non durante. Carter è l’ex presidente più di successo dell’intera storia americana. Nessuno dei suoi pari è riuscito a vivere dopo la presidenza una vita piena e dedicata ai principi come ha fatto Carter, mediante il Carter Center in cui è stato personalmente coinvolto.
Mediazioni, controllo democratico delle elezioni, opere in favore dei diritti umani hanno costellato i decenni successivi la sua presidenza, con un impegno personale senza eguali. Ciò che impressiona di più è la fedeltà assoluta ai propri valori: cristiano praticante, uomo di chiesa, Carter ha sempre creduto nella pace e nei diritti umani senza mai smentirsi, né durante il suo mandato né dopo. Ha reagito a modo suo al giudizio critico dato dai contemporanei (e dai posteri) di non aver saputo interpretare il tempo della forza nascente proprio all’inizio degli anni Ottanta, quando perse la rielezione.
La fine degli anni Settanta fu un tempo di crisi ma anche di grandi speranze sancito dagli accordi di Helsinki e dalla distensione della quale fu ardente paladino, come dimostra la pace tra Egitto e Israele (l’univa che davvero tiene). Dopo di lui solo signori della guerra (come Reagan o i Bush) o della prosperità occidentale (Clinton, Biden e Trump) o dello scontro culturale (Obama): insomma presidenti come leader forti.
Carter invece fu "l’uomo del sorriso”, il presidente gentile, considerato troppo evanescente e fragile per un tempo di durezza come quello della rivoluzione iraniana, del fanatismo crescente e dell’ultima fase dell’Urss (guerra in Afghanistan, Etiopia, Mozambico e Angola rosse ecc).
Forattini lo disegnava come una dentiera sorridente senza corpo. Eppure Carter non ha mai ceduto al destino della forza, continuando a fare la sua parte in favore di un mondo di pace e dei diritti umani, in maniera sommessa ma tenace. Ha offerto l’immagine di un leader di altro tipo, di un’America gentile e antieroica, che non si impone né costringe altri a seguirla. Un’America buona come raramente accade.
Siamo abituati a concepire gli Stati Uniti il paese leader, il più forte per deterrenza militare e per capacità produttiva e tecnologica. Spesso ci spaventiamo quando gli Usa perdono colpi nei confronti di potenze alternative, come fu l’Unione Sovietica ieri o lo è oggi la Cina.
Carter propose un’immagine diversa di America non aggressiva. Per tutta la via è rimasto pervicacemente un paladino dei diritti umani e contrario al doppio standard che Washington (come tutto l’Occidente) utilizza continuamente. Senza angelismi ma con ostinazione ha sempre difeso la parte della pace anche se ciò costava o gli veniva imputato come errore o debolezza.
L’occupazione dell’ambasciata a Teheran da parte delle nascenti guardie della rivoluzione islamica, distrusse ogni possibilità di rielezione. Venne il momento di un leader forte e molto rispettato, Ronald Reagan, che riarmò il paese costringendo addirittura i sovietici alla resa. Nessuno mette in discussione quella politica che ha offerto ancora almeno due decenni di supremazia totale all’Occidente. Allo stesso tempo – osserviamo oggi – ha creato attorno ad esso molti nemici.
Possiamo vedere gli effetti della “scelta della forza” nel risorgere infinito di contrasti e guerre, mai davvero terminate. Il pacifismo viene criticato come il “nuovo fantasma” che si aggira per l’Europa. Per contrasto con esso si preferisce ciecamente (e senza senso storico) l’unica via della contrapposizione. Carter non era un pacifista ma un pacificatore: un leader favorevole all’alternativa del negoziato che tenti di ritrovare sempre un nuovo equilibrio. La sua presidenza si concluse in fretta con un senso di fallimento ma la sua vita è continuata a lungo con successo, sempre in lotta permanente per i diritti dell’uomo e la pace. Nessun presidente è riuscito come lui ad avere un destino post-presidenziale con più popolarità, fama e affermazione.
Alla fine ha ottenuto il rispetto di tutti, anche dei suoi avversari. L’unico che gli si possa in parte accostare è Robert F. Kennedy, con la notevole differenza di non essere mai stato alla Casa Bianca perché ucciso prima di conquistarla. Anche lui (più del fratello JFK) aveva incarnato – seppure per un breve periodo – un’America diversa e più buona: fu il sentimento prevalente degli americani dell’epoca.
Nel libro fotografico “The Train” che pubblica le immagini degli americani che salutarono il suo feretro che tornava a casa per ferrovia, si vedono i volti dell’America di una volta, povera e dignitosa, dove non si urlava e non ci si odiava, almeno non quanto oggi. Un’America simpatica e forse scomparsa per sempre. Quella di Jimmy Carter.
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