Ruth Castillo ha lasciato il Venezuela per trovare rifugio in Italia. Racconta la sua storia sotto la repressione dei regimi del suo paese: «I ragazzi rimanevano per strada tutta la notte, non avevano armi. Solo qualche molotov. Io supportavo i manifestanti portando cibo, acqua e cure se venivano feriti. Poi sono arrivati i militari e c’è stato un massacro»
Da Caracas a Dignano in Friuli il cambiamento è totale. Sette milioni di abitanti contro duemila anime o poco più. Il freddo fiume alpino, il Tagliamento, che lambisce un fianco del paese, fa scorrere nelle sue acque una storia molto diversa dal Río Guaire, che solca la capitale del Venezuela e che è stato teatro de La madre de todas las marchas, l’imponente protesta del 19 aprile 2017, quando i manifestanti si gettarono nel fiume per evitare i gas lacrimogeni. Ruth Castillo era tra questi.
Sarebbe fuggita da Caracas il 31 agosto di quell’anno e oggi dalla valle alpina pensa al futuro del suo paese. Il 10 gennaio Nicolás Maduro presterà giuramento. Dieci giorni dopo toccherà a Trump insediarsi alla Casa Bianca. I rapporti tra Washington e Caracas saranno determinanti per le sorti del Venezuela.
Il ritorno di Chávez
Ruth mette al mondo sua figlia nello stesso anno in cui Chávez ritorna al potere dopo il colpo di stato che lo aveva costretto a fuggire e a lasciare il paese per tre giorni. Siamo nel 2003.
Chávez avvia la nazionalizzazione del petrolio per finanziare attraverso il barile programmi educativi e sanitari e annuncia che licenzierà tutti i dirigenti della Petróleos de Venezuela sa (Pdvsa) che non obbediranno ai piani di produzione e sviluppo decisi dal governo.
Mentre alcuni di loro verranno destituiti, a gran parte degli altri verrà imposto un «pensionamento anticipato».
«Mio padre lavorava nell’amministrazione della corporazione venezuelana del petrolio», racconta Ruth che a quel tempo ha ventotto anni e lavora in un laboratorio di fisica nucleare, dove conduce una ricerca sulle applicazioni dei radiotraccianti nell’industria del petrolio e dello zucchero in Venezuela.
«Lo stato chiese a mio padre di prendere una posizione politica e di iscriversi al partito di Chávez. Se non accettavi, non eri neutrale: eri contro il líder. Mio padre prese tempo».
Quando Chávez si insedia nel 1999 indice un referendum in cui chiede al popolo il consenso per cambiare la costituzione. Uno dei punti salienti del suo programma politico consiste nell’espellere gli stranieri dalla grande macchina produttiva del petrolio e imporre una gestione al cento per cento statale.
Questa impostazione provoca un crollo nel mercato petrolifero nazionale a cui fa seguito un colpo di stato portato avanti dalle imprese petrolifere. Chávez fugge dal paese, torna dopo tre giorni e usa il pugno duro con i lavoratori del petrolio: «Inizia a perseguitare dal più piccolo operaio fino ai vertici delle imprese: o sei con lui o sei contro di lui».
Gli scioperi
Nel 2003 per due mesi il Venezuela è bloccato da un’ondata di scioperi nella distribuzione della benzina: «Nessuno si poteva più muovere, andare a lavorare, non arrivavano i rifornimenti di cibo. Io non potevo raggiungere il laboratorio. Chávez metteva in carcere chi scioperava». Quando si ristabilisce la situazione e torna la mobilità nel paese, il padre di Ruth, che intanto ha preso tempo per l’iscrizione al partito, ha diritto a uno scatto di anzianità e a una retribuzione più alta.
Per via della sua riluttanza nel prestare fede al líder, si ritrova in pensionamento anticipato e con un capo con meno esperienza di lui, ma con la tessera del partito in tasca.
«Mentre tornava da lavoro, la macchina di mio padre viene travolta da un camion trasportatore di benzina in circostanze mai chiarite. Resta in coma per una settimana e poi muore. In quei giorni mia madre riceve una telefonata. Una voce divertita le dice: adesso toccherà a tua figlia».
Siamo nel 2004. Ruth è consapevole che una telefonata non registrata non è una prova sufficiente per avviare un’indagine, ma coinvolge un avvocato di fiducia. Il clima di paura porta Ruth a trovare rifugio con la madre e la figlia e a vivere nascoste in case di amici. Perde il lavoro al laboratorio di fisica nucleare. Col passare degli anni e il calmarsi delle acque inizia a insegnare fisica all’università di ingegneria di Caracas.
Nel frattempo Chávez si ammala di una forma grave di tumore e va a curarsi a Cuba. Al governo si insedia Nicolás Maduro. Siamo nel 2013. «L’università era al collasso. Lo stato non dava i fondi. In facoltà mancavano le lampadine, la carta, il caffè al bar. Io lavoravo, ma non prendevo uno stipendio. Se andava bene, mi pagavano ogni due mesi. Era tutto instabile. Nessuno pensava a fare ricerca».
Professori e studenti iniziano una serie di manifestazioni pacifiche: «Facevamo lezioni su strada, ma intanto nei nostri sit-in si infiltravano persone filogovernative sotto copertura».
Ruth si riferisce ai membri del circolo bolivariano: «Tu non sai chi sono. Vengono nelle manifestazioni. Si mettono nei caffè e ti ascoltano, ti spiano. Difficile riconoscerli. Può essere una donna con un bambino o un signore che legge un giornale». Siamo nel 2014.
Il cambio
Nicolás Maduro prende ufficialmente il potere. Contro il suo governo nasce La salida, il movimento di disobbedienza civile, fondato da Leopoldo López, Antonio Ledezma e María Corina Machado.
Nello stesso periodo prende le mosse La guarimba, un movimento che occupa le strade con pneumatici e ferri vecchi per ostacolare il passaggio.
«I ragazzi rimanevano per strada tutta la notte, non avevano armi. Solo qualche molotov. Io supportavo i manifestanti portando cibo, acqua e cure se venivano feriti. Poi sono arrivati i militari e c’è stato un massacro: hanno ammazzato i ragazzi, altri sono stati portati in carcere». López viene arrestato. Machado fugge. Ledezma ripara in Spagna.
Arriviamo al 2017 «che è stato peggio del 2014», dice Ruth. Da Washington intanto Obama proroga le sanzioni contro il Venezuela. «Si decide di manifestare per sei mesi perché le università erano piene di persone pro-chávez che hanno bloccato il mio percorso accademico. Venivano durante le lezioni e infastidivano la mia didattica». Ma il peggio deve ancora venire.
All’università di ingegneria Ruth insegna una materia fondamentale come fisica. «L’ordine che mi arrivò dal governo era di continuare una didattica normale. Io mi sono rifiutata: come posso avere una quotidianità quando i ragazzi sono per strada e rischiano la pelle? Con i miei studenti che sono stati arrestati e altri sono morti? Che lezione posso fare? Che voto posso mettere in questa situazione? Nell’università ero sola contro tutti».
Quando ammazzano i suoi studenti, Ruth parla con sua madre, le dice che il paese è bloccato, è un paese povero, militarizzato, sua figlia non può andare a scuola, lei stessa non può più lavorare ed è perseguitata politicamente. L’unica soluzione è andare in Italia.
La figlia di Ruth, infatti, è nata in Venezuela da un cittadino italiano con cui Ruth si separa poco dopo la nascita della bambina. La strada del ricongiungimento familiare è la più veloce. «I militari non lasciavano partire il mio aereo, mi hanno perquisito per due ore. Ho dovuto pagare perché mi lasciassero andar via».
La fuga
Siamo al 31 agosto del 2017. Ruth Castillo parte da Caracas e arriva a Dignano in Friuli, paese del suo ex marito. Ma in Italia ad aspettarla non c’è un lavoro come ricercatrice di fisica. Ruth continua a formarsi. Prende un dottorato in filosofia della fisica, pubblica libri scientifici, partecipa a convegni, inizia a girare per Trieste, Padova, Milano.
In questi eventi incontra scienziati venezuelani che come lei non sanno come riprendere con il proprio lavoro per via degli ostacoli burocratici e per una mentalità che continuerà sempre a vederli come stranieri più che come ricercatori.
«Quella di noi venezuelani fuori dal paese è una diaspora silenziosa: siamo otto milioni». Ruth conosce i suoi connazionali ora in Italia e sa, ad esempio, di medici venezuelani che a Caracas lavoravano come chirurghi e che adesso fanno i badanti a Padova.
«Qual è adesso il mio lavoro?», sorride Ruth. «Sopravvivere. Non ho un lavoro fisso. Faccio lezioni di spagnolo all’università popolare. Scrivo di filosofia della fisica per non perdere l’abitudine della ricerca. Non prendo un euro per questo. Lo faccio solo perché non voglio dimenticare chi sono». Siamo nel 2025.
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