Suv scagliati contro la folla e attacchi con il coltello: non c’erano mai stati così tanti attentati contro civili. Ora il paese s’interroga sulle conseguenze del suo modello di sviluppo e su un disagio sempre più diffuso
L’11 novembre scorso a Zhuhai mancava un quarto d’ora alle 8 quando il sessantaduenne Fan ha trasformato una tranquilla sessione di ginnastica serale in una carneficina, lanciandosi con il suo SUV contro un gruppo di persone che si esercitava all’aperto, uccidendone 35. I video dello spiazzo adiacente lo stadio della città sul Mar cinese meridionale pieno di corpi riversi sull’asfalto hanno fatto il giro dei social, suscitando sgomento in tutto il paese. Tanto che, il 12 novembre, è dovuto intervenire Xi Jinping. Il presidente cinese ha raccomandato alle autorità locali di «compiere il massimo sforzo per prevenire questi casi estremi e punire severamente il criminale». E il premier Li Qiang ha invitato a indagare «rischi nascosti e conflitti sociali».
Ma quatto giorni dopo a Yixing – nella provincia “modello” del Jiangsu – il ventunenne Xu ha ammazzato a coltellate otto persone davanti al college nel quale aveva studiato. Sono passati altri tre giorni e a Changde, nella provincia dello Hunan, un altro SUV – guidato dal trentanovenne Huang – ha investito genitori e bambini all’ingresso di una scuola elementare, ferendone decine.
Questi tre “incidenti di massa” nel giro di una settimana sono arrivati dopo che episodi simili si sono verificati recentemente a Suzhou, Shanghai e perfino nella iper controllata Pechino. Sette negli ultimi tre mesi, una decina nel 2024, secondo le statistiche ufficiali.
Una successione di azioni omicide contro donne, bambini e anziani che ha lasciato incredula una popolazione che attribuisce alla sicurezza un’enorme importanza. Eventi in stridente contrasto con l’armonia sociale di confuciana memoria promossa dal partito comunista. Viene quasi da chiedersi: se a impedirlo non ci fosse il divieto assoluto della vendita di armi, quante Columbine avrebbe visto la Repubblica popolare cinese?
Casi isolati?
Ma la domanda che si fanno in Cina è un’altra, ovvero cos’hanno in comune – ammesso che ce l’abbiano – questi attacchi così efferati e apparentemente immotivati, che le autorità trattano come “incidenti isolati”.
Stando ai primi risultati delle indagini, Fan ce l’aveva con le autorità per come hanno ordinato la divisione delle proprietà con la moglie dalla quale ha divorziato, Xu invece era stato bocciato e non ce la faceva ad andare avanti col suo salario da operaio.
In Cina “vendetta contro la società” (bàofù shèhuì) è un’espressione utilizzata tanto dalle autorità quanto dalla gente comune per indicare che gli aggressori, spesso provenienti dai settori più marginali della società, attaccano persone innocenti nel disperato tentativo di vendicare i torti subiti, o perlomeno ciò che percepiscono come tali.
Di “vendetta contro la società” si iniziò a parlare soprattutto negli anni Duemila, nella fase più impetuosa della migrazione di un proletariato rurale finito ai margini delle metropoli cinesi, spesso con un salario da fame e senza diritti in un paese dove il denaro scorreva a fiumi, ma non per tutti. I media e internet erano decisamente più aperti e di “vendetta contro la società” si poteva anche discutere nei forum online e sui giornali.
Tra i casi che allora fecero clamore, quello dell’autista Li Guoqing, che nel giugno 2009 uccise quattro persone guidando il suo autobus come un pazzo nel traffico per quasi sette miglia. Il governativo China Youth Daily inquadrò quell’episodio come “vendetta contro la società”. Li era stato costretto dalla sua azienda a fare un turno sostitutivo mentre era in ferie, e questo sarebbe stato il motivo alla base del suo impulso distruttivo.
Dopo il massacro di di Zhuhai, online ha iniziato a circolare una ricerca del 2019 che analizzava 20 “incidenti di massa” avvenuti in Cina. Scritto da due dottorandi dell’università di Scienza e Tecnologia della Cina Orientale di Shanghai, lo studio sostiene che alcune persone quando subiscono o pensano di subire dei torti e non dispongono delle risorse sociali e psicologiche per alleviare le emozioni negative, possono adottare una “mentalità di vendetta”, con relative azioni di ritorsione.
«Vale la pena notare che alcuni atti criminali di vendetta contro la società sono una forma di violenza performativa, in cui gli autori utilizzano comportamenti estremi per ottenere l’attenzione pubblica e il riconoscimento sociale», si legge in quel lavoro.
Il disagio come stigma
Oggi il governo e i media preferiscono liquidare come “casi isolati” i terribili episodi delle ultime settimane. Ma un interessante contributo alla comprensione del fenomeno è arrivato da un’inchiesta di Lianhe Zaobao. Secondo il principale quotidiano in lingua cinese di Singapore c’è un legame tra gli effetti più deleteri dello sviluppo socio-economico della Cina e gli atti di “vendetta contro la società”.
In un lungo articolo il giornale anzitutto ribalta l’immagine stereotipata del cinese che pensa soltanto a lavorare. Al contrario, secondo Wei Zhizhong, lo sviluppo socioeconomico del paese ha spostato i bisogni delle persone dalla soddisfazione materiale a quella spirituale ed emotiva. «Le persone si concentrano maggiormente sui propri sentimenti: “Sono felice? Sono apprezzato? Ho un significato e ricevo il rispetto che merito?”», ha spiegato l’esperto a capo del Centro di consulenza psicologica Yiwei Duxin di Guangzhou. Quando i bisogni ai quali le persone attribuiscono maggior valore non vengono soddisfatti, la disparità tra aspirazioni e realtà può facilmente scatenare problemi di salute mentale.
I tre anni (2020-2023) di chiusure per limitare la diffusone dell’epidemia di Covid19 – che in Cina hanno danneggiato più che altrove lavoratori precari e aziende piccole e medie – hanno acuito il problema. Secondo l’ultimo rapporto (2023) dell’Istituto di psicologia dell’Accademia cinese delle scienze, almeno un cinese su dieci è a rischio depressione o ansia.
Sarebbe azzardato stabilire un legame diretto tra disagio mentale e gli episodi che si sono verificati ultimamente. Anche perché in Cina le malattie mentali sono considerate uno stigma, e come tali poco indagate e ancora sottovalutate. Per cercare di limitare i casi di “vendetta contro la società”, il governo lancia campagne politiche: magistratura e polizia si concentrano sul numero di “devianti” che di volta in volta controllati.
Abusi di potere
Quello che manca è un sistema di prevenzione e cura. Nel 2021 nel paese operavano solo 64mila psichiatri, l’1,5 per cento del numero complessivo di medici.
Secondo Tan Gangqiang, a capo del ufficio di consulenza psicologica Xiehe di Chongqing, «sul lavoro, gli individui sono spesso tenuti a ripetere slogan e a seguire le direttive dei superiori, anche se non sono d’accordo con le politiche. Questa dissonanza può portare a conflitti interni e insoddisfazione. Se queste emozioni non vengono gestite correttamente, potrebbero manifestarsi in altri modi, potenzialmente estremi».
Tan ha sostenuto che le attuali misure utilizzate per identificare i sospetti sono soggettive e vaghe, presentando rischi di ingiustizia e abuso di potere. Le comunità spesso stabiliscono questi criteri senza una base giuridica chiara, portando a schedature arbitrarie di individui i cui comportamenti si discostano dal generale conformismo. Lo psicologo ritiene che in un paese governata dallo stato di diritto le azioni non esplicitamente vietate dalla legge dovrebbero essere consentite, piuttosto che giudicate secondo standard arbitrari: «L’abuso di potere per motivi personali potrebbe danneggiare ingiustamente persone innocenti».
La società cinese è malata? Secondo Wei questa sarebbe una conclusione affrettata. Le reazioni di alcune persone alle profonde e repentine trasformazioni della società secondo lo psicologo sono manifestazioni piuttosto che risultati definitivi del cambiamento sociale. Per Wei nella società cinese ci sono delle “tossine” che derivano da fattori come un’amministrazione imperfetta, mancanza di coesione sociale e debole stato di diritto.
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