Anche se formalmente il sostegno al mantenimento dello status quo è bipartisan, i pretendenti alla Casa bianca hanno stili completamente diversi in politica estera
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“Ambiguità strategica”: così gli Stati Uniti sono soliti descrivere la loro posizione rispetto alle rivendicazioni di sovranità su Taiwan da parte di Pechino e Taipei. Si tratta di uno dei punti fermi che le amministrazioni Usa, con l’avvicendarsi di presidenti democratici e repubblicani, hanno sempre cercato di tutelare.
L’interesse bipartisan negli Stati Uniti per il mantenimento dello status quo a Taiwan non deve, però, provocare fraintendimenti: Donald Trump e Kamala Harris hanno in mente stili di politica estera diversi. Per questo chi osserva la campagna per le presidenziali del 5 novembre si chiede anche come si declinerà la presenza di Washington nell’Asia-Pacifico nel caso in cui i 50 stati si tingano di rosso, oppure di blu.
La “tigre asiatica”
È in quei 180 chilometri che dividono l’arcipelago conteso dalla Cina continentale che si gioca la stabilità regionale, oltre che l’antagonismo tra Cina e Usa. Taiwan presidia il Mar cinese orientale con un governo de facto autonomo e un’economia florida, che dagli anni Novanta a oggi si è sviluppata rapidamente e le è valsa il titolo di “tigre asiatica” insieme a Hong Kong, Corea del Sud e Singapore.
Dal fornire per lo più manodopera a basso costo, oggi vanta un ruolo cruciale nella produzione mondiale dei semiconduttori, industria ad altissima intensità di capitale. I chip taiwanesi sono la componente chiave di buona parte dei dispositivi elettronici del mondo: dall’iPhone ai tablet agli smartwatch. Secondo la Semiconductor Industry Association, Taiwan produce il 92 per cento dei microchip avanzati.
“Una sola Cina”
A Taipei, però, non basta partecipare a pieno titolo all’economia internazionale per essere riconosciuta come nazione indipendente. Il suo status politico resta precario: solo 12 paesi nel mondo la riconoscono.
Dal 1949 l’impianto istituzionale è quello della Repubblica di Cina, ma Pechino la considera una provincia ribelle destinata a tornare presto sotto il suo controllo. La maggior parte della comunità internazionale condivide l’imperativo del “one-China principle” voluto dalla Repubblica popolare cinese: esiste una sola Cina e fa capo a Pechino.
Ed è quello che ha ribadito anche Kamala Harris in un breve scambio con i giornalisti prima di imbarcarsi per tenere comizi elettorali in Pennsylvania la scorsa settimana. «Cosa ne penso delle esercitazioni cinesi intorno a Taiwan? Fatemi ribadire quello che dico molto spesso: io credo nella “One-China policy”. E che Taiwan abbia il diritto di difendersi».
Il ruolo dei semiconduttori
Molti pensano che il ruolo di Taiwan nell’economia globalizzata possa rappresentare una garanzia contro le minacce di invasione (che dal punto di vista cinese è una riunificazione) da parte della Repubblica popolare. Certo non con Trump: in una recente intervista a Bloomberg ha accusato Taiwan di aver sottratto agli Stati Uniti l’industria manifatturiera dei microchip, e ha affermato che dovrebbe pagare Washington per il suo sostegno alla difesa contro Pechino.
La smentita sulle forniture gratuite è arrivata presto dal portavoce del dipartimento di Stato Matthew Miller, che ha detto che Taiwan spende «miliardi di dollari» per gli armamenti difensivi statunitensi, e che si tratta di una cifra «importante per l’economia statunitense». Rispetto alla competizione sui microchip non è una sorpresa che il tycoon, almeno a parole, penda verso il protezionismo economico.
Cosa dice il Taiwan Relations Act
Il ruolo degli Usa negli affari intra-stretto (che Pechino considera una questione di politica interna) ha una lunga storia. Avevano creato perplessità nel mondo diplomatico le parole del presidente Biden, che nel 2021 aveva commentato la notizia che la Cina stesse testando missili ipersonici dicendo che gli Stati Uniti avevano «un impegno a proteggere Taiwan».
Il riferimento era al Taiwan Relations Act del 1979, che però non menziona alcun intervento diretto da parte di Washington nel caso in cui Pechino decida di procedere alla riunificazione forzata di quella che considera una provincia separatista. L’atto del Congresso si limita a impegnare gli Usa a fornire equipaggiamenti e risorse «nella quantità necessaria a consentire a Taiwan di mantenere una capacità di autodifesa sufficiente». Un portavoce della Casa Bianca aveva poi chiarito che gli Stati Uniti avrebbero continuato «a sostenere l'autodifesa di Taiwan» e ad opporsi «a qualsiasi modifica unilaterale dello status quo».
Trump, un neo-isolazionista “pericoloso”
Dagli anni dell’amministrazione Trump, l’approccio alle relazioni con la Cina si è fatto più conflittuale. Washington ha cominciato a trattarla come una «potenza revisionista» che «sfida il potere, l’influenza e gli interessi americani», come evidenzia la National Security Strategy del 2017.
Nel documento si legge anche: «manterremo i nostri forti legami con Taiwan in conformità con la nostra politica di “Una sola Cina”, compresi gli impegni assunti con il Taiwan relations act di provvedere alle legittime esigenze di difesa di Taiwan».
Ma il “neo-isolazionista pericoloso”, Trump, che nel corso del suo primo mandato aveva rinunciato a portare avanti gli ideali di internazionalismo liberale in nome della sua “America first”, in un contesto di crescenti tensioni nello Stretto potrebbe subire le pressioni del governo taiwanese a farsi sentire.
Le politiche di Kamala Harris
Kamala Harris, per gli analisti, si porrà in sostanziale continuità con l’approccio del suo predecessore, e manterrà «lo stile di impegno competitivo di Obama e Biden», come lo ha definito il Washington Post, rispetto alla Cina. Nel 2022 anche lei ha dichiarato che gli Usa continueranno «a sostenere l'autodifesa di Taiwan, coerentemente con la [loro] politica di lunga data».
Da vicepresidente, Harris ha parlato sia con il leader cinese Xi Jinping che con il presidente della Repubblica di Cina Lai Ching-te, ed è nota per essere uno dei principali artefici della strategia indo-pacifica dell'amministrazione Biden. Questo lascerebbe pensare che non si sottrarrà, al contrario di Trump, al coinvolgimento in dinamiche internazionali.
La politica estera, però, è un complesso gioco di compromessi e contraddizioni. Oltre a dipendere dagli sviluppi delle tensioni nello Stretto, resterà da capire che aspetto assumerà la politica statunitense all’indomani delle elezioni di novembre.
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