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Tra gli operatori economici italiani in Cina c’è apprensione per la scelta che il governo Meloni dovrà fare sulla nuova via della Seta: rinnovare o no il memorandum d’intesa sottoscritto tra Roma e Pechino nel marzo 2019?
- Strappare con la Cina può avere vantaggi politici, da riscuotere al summit del G7.
- Ma può avere anche grosse conseguenze economiche per le aziende italiane
Tra gli operatori economici italiani in Cina c’è apprensione per la scelta che il governo Meloni dovrà fare sulla nuova via della Seta: rinnovare o no il memorandum d’intesa sottoscritto tra Roma e Pechino nel marzo 2019?
A quanto risulta a Domani, in attesa dell’insediamento del nuovo ambasciatore, Massimo Ambrosetti, dalla nostra rappresentanza diplomatica a Pechino è stato consigliato a chi ricopre incarichi ufficiali di mantenere in questa fase un profilo basso.
È stato raccomandato persino di non diffondere il filmato con il quale la presidente del Consiglio, lo scorso 10 aprile, ha inaugurato il China International Consumer Products Expo di Hainan.
Nel videomessaggio Giorgia Meloni afferma di aver “convenuto” e “condiviso” con il presidente cinese, Xi Jinping, «la necessità di lavorare insieme per promuovere il rilancio dell’economia a livello globale e approfondire le relazioni economiche e commerciali tra l’Italia e la Cina».
Non il migliore biglietto da visita alla vigilia di un summit del G7 – quello che si svolgerà dal 19 al 21 maggio a Hiroshima – nel quale la Cina sarà criticata per le sue pratiche di mercato «ingiuste e anti competizione», e per «i tentativi di cambiare lo status quo con la forza» a Taiwan e nel Mar cinese meridionale e orientale, secondo quanto recita il comunicato (nel quale la Cina figura al terzo di 24 punti e che ha suscitato l’ira di Pechino) del vertice dei ministri degli Esteri del G7 del 18 aprile scorso, al quale per l’Italia ha partecipato Antonio Tajani.
La linea di Washington
Il mese scorso, l’ambasciatore Usa a Tokyo, Rahm Emanuel, ha invitato gli stati membri a dar vita a una coalizione “anti coercizione”. Per gli Stati Uniti la pandemia, la guerra in Ucraina e le misure “coercitive” della Cina (e della Russia) hanno invertito i fattori che guidano i mercati globali: dall’efficienza e dal contenimento dei costi, alla stabilità e la sicurezza.
Così, ad esempio, l’obiettivo di Xi di “riunificare” Taiwan alla Cina continentale ha indotto Washington a convincere il produttore del 90 per cento dei microchip più avanzati – la taiwanese Tsmc – a delocalizzare la produzione negli Usa, in Giappone, e forse anche in Germania. Washington sta provando a convincere del nuovo approccio che mette al primo posto la sicurezza delle catene di approvvigionamento anche il Giappone (presidente di turno del G7) che, come la Cina, prospera grazie al libero commercio e che teme di essere danneggiato dalla spirale coercizione-protezionismo.
L’Italia si presenterà a Hiroshima ancora nelle vesti di unico membro del G7 che sostiene la nuova via della Seta – la strategia di politica estera lanciata da Xi nel 2013 – oppure si appresta a notificare alla controparte di non voler rinnovare quel memorandum firmato dal Conte I?
Uno strappo con Pechino farebbe compiere a Meloni un passo avanti nella strategia di rafforzare le sue credenziali atlantiste e quelle dei suoi Fratelli d’Italia. E le permetterebbe di presentarsi come alternativa al presidente francese, Emmanuel Macron, che questo mese a Pechino ha declinato la sua “autonomia strategica” suggerendo che l’Unione europea si lavi le mani della questione taiwanese, lasciandone la gestione ai suoi tradizionali protagonisti: la Cina che vuole “riunificare” l’isola entro il 2049, e gli Stati Uniti che dal 1949 sovrintendono alla sua difesa, con le loro rinnovate alleanze militari per contrastare le mire di Pechino nella regione.
Rotta su Taipei
L’annuncio – da parte del ministero degli esteri di Taipei – della prossima apertura del secondo ufficio di rappresentanza di Taiwan in Italia, a Milano, così come la missione a Taipei, nei giorni scorsi, del ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso (fratello d’Italia molto vicino a Washington) allo scopo di elaborare assieme al governo di Taipei, secondo quanto riportato da Bloomberg, «piani per aumentare la cooperazione sulla produzione e l’esportazione di semiconduttori», lascerebbero intendere che a palazzo Chigi puntano a un cambiamento della tradizionale politica estera italiana sulla Cina, scommettendo su Taiwan.
Tuttavia il valore del commercio dell’Italia con Taiwan è stato di 5,57 miliardi di dollari nel 2021 (più 30,6 per cento), mentre quello con la Cina l’anno scorso ammontava a 73 miliardi. E sulla scrivania di Meloni c’è un grafico dell’agenzia Ita che per il 2022 accanto all’export italiano in Cina ha il segno più 131,3 per cento. Il fatturato di tante aziende italiane dipende dalla Cina.
E non è detto che Pechino non reagirebbe a un eventuale “voltafaccia”. È ancora fresca la memoria dello spot-gaffe del 2018, per il quale Dolce & Gabbana subirono il boicottaggio dai consumatori cinesi sobillati dai media di stato e furono costretti a video scusarsi con la Cina.
Pronti per essere cancellati – assieme al memorandum – ci sono, tra l’altro, 250 aerei Atr 42 prodotti a Pomigliano d’Arco che la Cina si è impegnata ad acquistare, entro il 2035, a margine dell’incontro del 16 novembre scorso tra Meloni e Xi al G20 di Bali.
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