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Da Urumqi a Pechino, da Chengdu a Shanghai e in altre tredici città, le proteste infiammate dai network studenteschi non hanno riguardato la natura dello stato cinese né le fondamenta del contratto sociale, bensì l’attuale gestione da parte della leadership in carica di un momento di crisi socioeconomica.
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Alla ricetta perfetta per la fine del “mandato del cielo”, la “dinastia” comunista (beninteso, lungi dall’essere davvero tale) ha risposto con tattiche già note: con il bastone, la censura, e con la carota.
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Resta da valutare l’implementazione delle nuove politiche e l’efficacia dell’azione repressiva nell’evitare la creazione di un precedente: il cambio di rotta va, infatti, letto come la concessione di una leadership forte e omogenea a un popolo plurale, attivo e consapevole.
Nella tradizione imperiale cinese, la legittimità della dinastia regnante e del sovrano in carica era determinata dalla nozione di “mandato del Cielo” (tianming), un mandato di sovranità a tempo indeterminato ma revocabile dal “Cielo” stesso qualora il regnante si fosse dimostrato ingiusto, contrario ai valori tradizionali sistematizzati da Confucio e scuola afferente.
La lettura della volontà celeste acquisiva contorni estremamente pratici: al manifestarsi di catastrofi naturali o indotte da decisioni umane, il popolo ribelle era legittimato a detronizzare il sovrano, con conseguenze spesso inevitabili sul ciclo dinastico. È corretto interpretare l’ondata di proteste partita il 25 novembre scorso in Cina come un momento di “rivoluzione” (geming), come la fine della legittimità del governo di Xi Jinping o, più in generale, del partito comunista cinese? No.
Le cause
Nonostante le proporzioni considerevoli e inusuali delle proteste in questione, i cittadini cinesi sono sempre stati un attore fondamentale nel paese, tanto in termini di partecipazione politica ordinaria quanto in momenti di protesta organizzata. È, dunque, fuorviante leggere quanto sta accadendo come una singolarità, come il cataclisma che porrà fine alla “dinastia” comunista.
Le proteste sono iniziate il 25 novembre a seguito della diffusione nell’intranet cinese di alcuni video che evidenziavano le difficoltà dei soccorritori nell’assistere le vittime di un incendio scoppiato il giorno prima in un edificio residenziale di Urumqi, capitale della regione autonoma dello Xinjiang, area “ad alta tensione” considerando le politiche repressive pensate dal centro politico ai danni della minoranza uigura. A determinare la lentezza dell’intervento sarebbero state le misure restrittive della “zero Covid policy” con conseguenze tragiche per le dieci vittime dell’incendio.
L’evento può essere considerato un “pretesto” di tucididea memoria per l’esplosione di un dissenso che covava almeno dall’inizio delle pesanti restrizioni orientate al contenimento della pandemia. Le cause “di lungo corso” delle proteste vanno ricercate nella frustrazione collettiva (ma non universale) che nasce appunto dal rallentamento economico causato dalla pandemia e dalla sua gestione, dalla pervasività della censura, dal percepito tradimento da parte di Xi Jinping dei principi fondanti del patto sociale tra popolo e partito.
L’esibizione di fogli A4 completamente bianchi e la diffusione di slogan e meme su WeChat diventano i mezzi preferiti dalle fasce più giovani e non solo per manifestare il desiderio di maggiore trasparenza degli affari governativi e di allargamento di una sfera pubblica compressa da lockdown asfissianti (l’aprile di Shanghai è esemplare in tal senso) e condizionata da un XX Congresso celebrativo dell’uomo forte, Xi, e della sua “cricca” di fedelissimi.
Da Urumqi a Pechino, da Chengdu a Shanghai e in altre tredici città, le proteste infiammate dai network studenteschi non hanno riguardato la natura dello stato cinese né le fondamenta del contratto sociale, bensì l’attuale gestione da parte della leadership in carica di un momento di crisi socioeconomica, una gestione orientata da pratiche effettivamente poco confuciane, di stampo legista, non “umane” e “giuste”, ma repressive e finalizzate all’autoconservazione del partito-stato.
Il potere delle icone
In questo senso, è esemplare l’esibizione in diverse piazze dei ritratti di Mao Zedong, il “grande timoniere” ai cui ideali di amore per il popolo il partito di Xi dovrebbe, per i manifestanti, rifarsi. Innegabile l’ispirazione dei movimenti del 4 maggio 1919, del giugno 1989, di quei grandi momenti di dialettica violenta tra popolo ed élite. La peculiarità delle attuali proteste, tuttavia, è la loro natura non radicale ma contingente, seppur sistemica.
Normalmente le proteste dei cinesi han (dunque non appartenenti a minoranze perseguitate), come quelle viste nelle grandi città della ricca Cina orientale, riguardano pratiche amministrative scorrette, avventure finanziarie sgradite di banche e grandi aziende, condizioni di lavoro ingiuste, elementi, in altre parole, di scala regionale, non nazionale né, soprattutto, governativa.
Con le nuove proteste, invece, si punta all’inversione della tendenza partitica ad allontanarsi dall’apertura, seppur estremamente relativa, delle leadership contigue di Jiang Zemin e Hu Jintao. Proprio la morte di Jiang Zemin avvenuta il 30 novembre, nel pieno delle proteste, e l’allontanamento di Hu Jintao dalla Grande sala del popolo durante una sessione del recente Congresso del partito si intrecciano con le proteste divenendo momenti iconici dall’enorme potere immaginifico, facilmente “reclutabili” dai manifestanti per caricare emozionalmente il proprio operato.
Seppur vergini, gli A4 esibiti dai cittadini cinesi richiamano i dazibao della rivoluzione culturale, tra cui il famoso “bombardate il quartier generale” di Mao che, nel 1966, invitava le Guardie rosse, gli studenti fedeli alla sua linea ortodossa rispetto al pensiero marxista-leninista, ad attaccare il partito comunista, ritenuto corrotto da idee antirivoluzionarie.
La censura
La dicotomia tra fogli bianchi e “poster a grandi caratteri” (appunto, i dazibao) è in gran parte il prodotto della prima e risoluta risposta del partito alle proteste: la censura. L’uso dei simboli è, infatti, un modo per denunciare la macchina ipertecnologica e multiforme di controllo e repressione rinvigorita per far fronte al dissenso su larga scala. Meno indiretti, invece, i modelli di comunicazione utilizzati su WeChat, il social omnicomprensivo cinese (che sussume le funzioni più disparate, dalle chat ai pagamenti elettronici): gli utenti hanno, infatti, inondato la piattaforma con meme, “bollettini” prodotti dai vertici informali della protesta e slogan di ogni tipo, riuscendo temporaneamente a sovraccaricare l’apparato di censura, impotente di fronte all’inusuale numero di contenuti a rischio.
Uguale e contraria l’azione dei troll cinesi sui social occidentali, in particolare su Twitter: negli ultimi giorni di novembre, per esempio, agli hashtag contenenti il nome delle principali città cinesi in protesta (#Shanghai, #Beijing ecc.) corrispondevano migliaia di post recanti immagini di donne ritratte in posizioni e vesti ammiccanti e didascalie che segmentavano la versione classica del lorem ipsum.
La leadership governativa ha tentato, inoltre, di delegittimare le proteste con continui riferimenti alle “forze esterne” e ai loro agenti, accusati di fomentare i “rivoluzionari” al fine di minare la stabilità del partito. Inserendosi nel solco del nazionalismo unificante promosso da Xi Jinping durante i suoi mandati, i portavoce del partito hanno identificato nei nemici dello stato cinese i veri responsabili del tumulto, nel tentativo di rafforzare la presa sulle menti più sensibili al richiamo patriottico e di evidenziare la natura corrotta delle manifestazioni.
La tenuta del mandato celeste
Eppure, la reale azione stabilizzante del partito è l’allentamento di molte delle misure più limitanti della “zero Covid policy”. Accettando le istanze centrali avanzate dai manifestanti, l’autorità ha provato a “salvare la faccia” allentando i lockdown e rilassando le misure di contenimento. Il partito ha risposto positivamente alle richieste meno politiche di parte della popolazione, forzando l’omissione mediatica dei fatti violenti e celebrando sulle testate nazionali il progressivo ritorno alla normalità. La depoliticizzazione dei fatti contribuisce alla stabilizzazione del potere che prova a tornare “umano”.
Alla ricetta perfetta per la fine del “mandato del cielo”, la “dinastia” comunista (beninteso, lungi dall’essere davvero tale) ha risposto con tattiche già note: con il bastone, la censura, e con la carota, l’accettazione delle rivendicazioni meno sensibili politicamente, gestendo nell’ambiguità una situazione singolare per certi aspetti e ordinaria per altri. Resta da valutare l’implementazione delle nuove politiche e l’efficacia dell’azione repressiva nell’evitare la creazione di un precedente: il cambio di rotta va, infatti, letto come la concessione di una leadership forte e omogenea a un popolo plurale, attivo e consapevole.
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