Il dibattito sulle due guerre più vicine a noi si è ormai polarizzato per ragioni strategiche e indicibili. Ma è difficile discuterne anche con chi usa argomenti morali perché assolutizza un valore senza riconoscere gli altri
Perché è così difficile parlare di guerra? Perché ormai ci si polarizza a prescindere. Perché, pur essendo una questione così seria, le guerre vengono strumentalizzate per i soliti conflitti politici e culturali. Ma è quasi impossibile anche discuterne tra persone in buona fede. Al di là della miseria di chi usa la guerra per affermarsi nel chiacchiericcio politico quotidiano, è diventato impossibile discuterne perché molti di coloro che lo fanno da una posizione valoriale non sanno misurare i valori di fronte alla tragicità della guerra.
L’incapacità di dibatterne chiaramente è emersa due anni fa con la guerra in Ucraina. Lo scontro verbale si è da subito affermato tra i pacifisti e i sostenitori della causa ucraina. Inizialmente i primi hanno posto un pacifismo che a molti è sembrato una resa incondizionata. La pace è sicuramente un valore fondamentale, ma lo è anche l’autodeterminazione di un popolo. Il negare che l’autodeterminazione lo sia o che la pace comporti conseguenze terribili ha reso la posizione di alcuni pacifisti una forma di assolutismo morale incapace di misurare le implicazioni di un valore.
Oggi, invece, una forma di intransigenza incapace di misurare le conseguenze di un principio è quella di chi sostiene il diritto israeliano di rispondere ad Hamas a prescindere da altre considerazioni. Dietro questa posizione c’è spesso la volontà di far dimenticare un passato ambiguo (la destra italiana), una fobia antimusulmana o un’immaginaria lotta di civiltà. Ma c’è anche l’idea che il diritto di auto-difesa dopo i fatti del 7 ottobre 2023 comporti un diritto di vendicarsi a qualunque costo.
Il paradosso
Può sembrare paradossale e inutilmente provocatorio confrontare le guerre in corso. Da un lato un’aggressione che viola l’integrità territoriale di uno stato sovrano; dall’altro una risposta spropositata a un atto terroristico in un territorio controllato dalla potenza dominante. La prima una guerra di invasione territoriale, in fondo classica. La seconda un conflitto asimmetrico, tra un’entità statale e un’entità non riconosciuta che vive nello stesso territorio della potenza dominante.
Il confronto tra le due guerre non deve far pensare a una sciocca equivalenza. Ovviamente tutte le guerre sono tanto orribili quanto diverse. Ma nel dirlo non abbiamo fatto un passo avanti. Il paradosso è più discorsivo che reale.
Già due anni fa, con lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, un certo pacifismo sosteneva che l’Ucraina dovesse arrendersi e che noi non dovessimo sostenerla. La resa, in nome della pace, mirava a risparmiare vite innocenti e un massacro apparentemente inutile. Il pacifismo a prescindere sembrava incapace di misurare tutti i valori in gioco, fino a sacrificare un valore (l’indipendenza territoriale ucraina) di fronte a un’aggressione che veniva in fondo condonata.
L’assolutismo
A prescindere dalla specificità della guerra in Ucraina, il problema del dibattito pubblico italiano sulla guerra è il suo assolutismo. Quando i valori entrano in gioco sembra che debbano essere assoluti e incondizionati. Come se pensare all’applicazione e al rapporto tra i valori rendesse i valori meno importanti di quanto siano.
Il paradosso è che così come i pacifisti hanno chiesto la resa ucraina, sembra che i sostenitori di Israele sostengano un diritto incondizionato alla rappresaglia. Di fronte a conflitti esistenziali il dibattito pubblico italiano sembra incapace di confrontare i valori e i problemi in campo. Pare esserci una tendenza diffusa a considerare i valori come principi assoluti, validi sotto qualsiasi condizioni. Ma nessun valore, nemmeno il più fondamentale, è valido a prescindere dalle condizioni della sua applicazione. Nemmeno l’autodifesa della propria vita è un valore assoluto poiché dà un diritto solo a una risposta proporzionata.
Purtroppo, questa spiegazione è, in fondo, ottimistica, poiché molte posizioni intransigenti derivano da una malafede difficilmente giustificabile (un tabù verso gli Stati Uniti o, dall’altra parte, verso qualsiasi entità politica e sociale di carattere musulmano).
I valori in gioco
Ma anche se la gran parte del conflitto verbale dipende da un posizionamento avente fini non-morali, è doveroso analizzare i valori in gioco. E nel farlo bisogna capire come la difesa di un valore, per quanto sacrosanto, tocca anche altre questioni. Israele ha il diritto di coinvolgere i civili nella guerra con Hamas? E se sì fino a che punto? Gli ucraini hanno il diritto di difendersi, ma fino a che punto abbiamo il dovere di sostenerli?
Anche chi parte da principi morali forti dovrebbe parlare della guerra guardando alle condizioni e alle conseguenze. Confrontare il dibattito sulla guerra in Ucraina con quello su Gaza pone di fronte a un paradosso: il modo in cui alcuni sostengono la politica israeliana ricorda l’assolutismo pacifista della resa ucraina.
Questo paragone, volutamente provocatorio e indigesto per entrambe le parti, non vuole sostenere che gli opposti si eguagliano oppure che l’unica soluzione è la via di mezzo. Piuttosto intende ricordare un’ovvietà, dimenticata nel furore della guerra: ci sono tanti valori in gioco e spesso confliggono. Ricordare le condizioni di validità e di applicazione di un valore non ne sminuisce il senso. Anzi, è l’unico modo per difenderlo da furiose contrapposizioni con chi abbraccia un valore diverso.
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