Una delle irriproducibili abilità di Donald Trump è quella di mandare in confusione gli avversari politici senza fare praticamente niente. Coalizioni di governo litigano e si sfaldano prima ancora che il presidente si sia insediato alla Casa Bianca e abbia iniziato a governare. 

È il caso del Canada, dove il governo di Justin Trudeau è appeso a un filo, dopo che lunedì la ministra delle Finanze, Chrystia Freeland, si è dimessa in aperta polemica con il primo ministro proprio per la posizione da tenere sulle minacce protezioniste di Trump.

Il presidente eletto ha promesso di imporre dazi del 25 per cento sui beni canadesi e Trudeau, premier in crisi di popolarità, ha mostrato di volere cercare la via del compromesso con la superpotenza confinante, atteggiamento testimoniato anche dalla recente missione a Mar-a-Lago.

Freeland la pensa all’opposto. Nella durissima lettera di dimissioni ha accusato Trudeau di preferire «costosi giochetti politici» a una vera strategia per contrastare «l’aggressivo nazionalismo economico» di Trump, un riferimento alla sua posizione sbrigliata in politica economica, mentre lei predica assoluto rigore fiscale per essere attrezzati per affrontare il nuovo clima protezionista.

Il motivo dello scontro è emerso con la pubblicazione del documento di previsione economica, nel quale si vede che il deficit atteso supera di circa 14 miliardi di dollari Usa le promesse fatte dal governo, inaccettabile tradimento per un falco fiscale come Freeland, che vede nella posizione del primo ministro non solo un problema di sostenibilità dei conti pubblici, ma una genuflessione politica a Trump.

E infatti il presidente americano ha subito manifestato euforia per le dimissioni: «Il suo comportamento era assolutamente tossico, e per nulla funzionale a raggiungere accordi che sono buoni per i cittadini molto infelici del Canada. Non ci mancherà!».

Per completare l’opera di umiliazione, Trudeau ha offerto alla dimissionaria un altro posto – meno prestigioso – nel governo, proposta immediatamente rispedita al mittente con un sovrappiù di sdegno.

Gli scenari

Le dimissioni hanno scatenato una crisi politica totale. Pezzi del partito liberale chiedono apertamente le dimissioni dell’impopolare Trudeau, che nel frattempo ha rimpiazzato Freeland con l’amico Dominc LeBlanc, uno storico alleato la cui qualità principale è l’inflessibile lealtà verso il capo. Nel fronte della sinistra si è aperta una lotta di tutti contro tutti, mentre il partito sta valutando se mettere in atto una procedura che porterebbe a un voto di sfiducia in parlamento, mentre a destra il leader dei conservatori, l’altro nascente Pierre Poilievre (sentiremo parlare di lui), chiede dimissioni immediate.

Il fatto politico rilevante, tuttavia, è che la crisi di Trudeau è uno dei segni del rinnovato potere di Trump, che con una sola minaccia riesce a torcere le posizioni degli avversari, a spaccare il fronte nemico e a innescare letali lotte intestine.

L’indebolito Trudeau ha un disperato bisogno di reinventarsi come uomo del compromesso per navigare altri quattro anni con Trump. Nel primo mandato trumpiano i rapporti con il primo ministro sono stati pragmatici e in alcuni momenti addirittura civili, mentre nell’ultima campagna elettorale l’universo MAGA ha fatto del leader canadese un idolo polemico assoluto, per via della retorica woke, delle leggi progressiste su qualunque tema sensibile e per le misure preventive contro l’hate speech, che secondo i critici sono un inaccettabile attacco alla libertà di parola. La rielezione di Trump ha costretto Trudeau a cambiare atteggiamento verso l’avversario, e ora il primo ministro potrebbe pagare un prezzo politico molto alto per la svolta. 

I liberali non hanno la maggioranza in parlamento e per anni il governo è andato avanti con il sostegno del New Democratic Party, che però ora ha definitivamente abbandonato Trudeau, e ne chiede le dimissioni.

Germania e Francia

C’è una qualche analogia fra la crisi politica del Canada e quella di Germania e Francia. Il governo di Olaf Scholz è saltato dopo le dimissioni del ministro delle Finanze, il falco liberale Christian Lindner, proprio per via di uno scontro sulla disciplina fiscale. In quel caso, era la politica verso l’Ucraina l’oggetto del contendere: il cancelliere voleva forzare i limiti di spesa per continuare a sostenere Kiev in modo consistente, il suo alleato non era disposto ad arretrare sulla disciplina di bilancio, e così la coalizione è saltata.

Anche quella crisi faceva leva su una infiammata questione di politica estera su cui l’elezione di Trump sta costringendo gli alleati a un riposizionamento.

La crisi francese ha ancora altre caratteristiche specifiche, ma anche l’ascesa del Rassemblement National di Marine Le Pen e poi la caduta del governo apparecchiato da Emmanuel Macron hanno a che fare con il ritorno di Trump, che ha legittimato nazionalisti e sovranisti di tutto il mondo e fatto deflagrare i conflitti all’interno delle coalizioni a trazione democratica. 

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