La stella polare di Trump è la difesa dell’interesse nazionale, inteso nel senso più restrittivo e minimalista, ma come tutto ciò che passa nelle mani del tycoon anche questo concetto è volatile ed esposto al cambiamento
Il mantra di Donald Trump di fronte al rovesciamento del regime di Bashar el Assad e alla scossa che sta facendo tremare la regione è quello di sempre: «Gli Stati Uniti non dovrebbero avere niente a che fare con tutto ciò. Non è la nostra battaglia. Lasciamo che le cose procedano. Non coinvolgiamoci».
Diceva queste parole isolazioniste già qualche ora prima che Damasco finisse in mano ai ribelli islamisti, Assad arrivasse a Mosca e la Casa Bianca ordinasse 75 attacchi a postazioni dello Stato islamico in giro per il paese. Trump vorrebbe non immischiarsi nelle vicende della Siria, ma le vicende della Siria continuano a immischiarsi in quelle degli Stati Uniti, e dunque anche il presidente eletto non potrà dire “stiamo a vedere” troppo a lungo.
La rapidissima caduta di un regime che sembrava immobile e tutte le sue potenziali ramificazioni, assai difficili da prevedere in questa fase, mostrano l’inadeguatezza della lente nazionalista attraverso cui Trump si gloria di guardare il mondo presso chi lo ha votato per via dell’inaffrontabile prezzo delle uova, non per occuparsi dei conflitti in Medio Oriente. Mai come in questo frangente un singolo evento politico mostra che tutti gli scenari sono tra loro connessi, si intersecano e sovrappongono in modi talvolta inaspettati, e questo groviglio di portata globale non può non toccare la maggiore potenza mondiale, anche se guidata a parole dalla logica del disimpegno.
La stella polare di Trump è la difesa dell’interesse nazionale, inteso nel senso più restrittivo e minimalista, ma come tutto ciò che passa nelle mani del tycoon anche questo concetto è volatile ed esposto al cambiamento.
Nel 2017 aveva giustificato gli attacchi mirati alle basi assadiste dicendo che era «nell’interesse nazionale vitale degli Stati Uniti prevenire la diffusione di armi chimiche», poi l’interesse nazionale aveva suggerito di colpire l’Isis, poi ancora di ritirare le truppe americane dalla Siria. Qual è l’interesse vitale degli Stati Uniti secondo Trump in un turbolento scenario di ridefinizione dei rapporti dell’area che avviene sullo sfondo dell’invasione russa dell’Ucraina, dell’attacco del 7 ottobre e della conseguente campagna di Israele contro i suoi molti nemici? Difficile dirlo, ma di certo non basterà dire “non è la nostra battaglia” e tornare a occuparsi dei problemi interni per evitare un coinvolgimento. Il groviglio tra gli interessi delle potenze è tale che anche il nazionalistico disinteresse per quello che succede altrove è una presa di posizione.
Del resto, lo stesso attacco di Hamas contro Israele, innesco della catena dei conflitti, aveva come principale ragione politica quella di seppellire gli Accordi di Abramo, che portano la firma di Trump, e il ruolo della Russia e dell’Iran, sotto la protezione della Cina, non può sfuggire al presidente eletto. Il quale è allo stesso tempo legato al superalleato Netanyahu, che rivendica il suo ruolo decisivo nella caduta di Assad, avendo messo in ginocchio Hezbollah nel sud del Libano e distratto tutte le (non molte) forze di Teheran, mentre la Russia era concentrata sul fronte ucraino. E intanto la Turchia (paese della Nato dalla quale Trump a giorni alterni minaccia di uscire) approfittava dei vuoti per favorire milizie islamiste che si presentano ora come forze responsabili ed equilibrate, i famosi tagliagole cambiati dopo un sincero percorso di autocritica.
Anche i rapporti fra queste forze sono stati spesso ambigui e contraddittori. Quelli che su un fronte erano alleati, in un altro potevano ritrovarsi come avversari.
Iran e Russia non erano del tutto allineati in Siria. E Israele ha tenuto un rapporto pragmatico con il regime di Assad – che in cambio non ha fatto nulla per alzare la tensione con il Golan – mentre sviluppava un’ottima relazione con Vladimir Putin proprio sulla base delle aperture che questo concedeva ad azioni e incursioni anti iraniane sul territorio siriano. Poi ci sono la questione curda, le recrudescenze jihadiste, la posizione saudita, il ruolo della Cina che da tempo non è più solo un attore economico-commerciale ma si muove come broker diplomatico. Davvero Trump pensa di potersi chiamare fuori da tutto questo?
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