Dopo giorni di guerra mediatica è arrivata anche quella vera. Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina. A nulla sono servite le sanzioni economiche inflitte da Stati Uniti e Unione europea ai 351 membri della Duma e agli uomini vicino al presidente russo. Ma come si è arrivati a questo punto? Al centro della vicenda c’è il gas e una possibile adesione dell’Ucraina all’interno della Nato.

Euromaidan

Il rapporto tra l’Ucraina e la Russia è sempre stato ambiguo e conflittuale, soprattutto dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Kiev ha più volte ammiccato agli Stati Uniti per cercare di entrare all’interno della Nato, ma per il Cremlino confinare con un paese che fa parte dell’Alleanza atlantica è una minaccia.

Per capire meglio l’attuale tensione militare bisogna tornare alle notti del 21 e 23 novembre del 2013, quando nella capitale dell’Ucraina, Kiev, si è radunato un movimento formato in gran parte da giovani per protestare contro il presidente Viktor Yanukovich che si è rifiutato di firmare l’accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Unione europea per la creazione di un’area di libero scambio.

Yanukovich, presidente che ha militato nel partito comunista, ha preferito guardare a Est, verso Mosca, che gli ha offerto un prestito da 15 miliardi, piuttosto che accettare l’offerta di Bruxelles.

Una decisione che ha suscitato l’indignazione della popolazione e ha portato a violente manifestazioni di piazza. Il movimento di protesta, conosciuto come “Euromaidan” (piazze europee) per la sua forte vocazione europeista, viene subito represso con forza dal governo centrale.

Nelle settimane seguenti si contano già i primi morti. I manifestanti chiedono le dimissioni di Yanukovich e nuove elezioni.

Il 20 febbraio il movimento si dirige verso la sede del governo e del parlamento. I proiettili della polizia provocano 100 morti e 700 feriti. La rottura è totale. Il presidente ucraino si rifugia in una località ignota e qualche giorno dopo il ministro dell’Interno, Arsen Avakov, annuncia che Yanukovich è ricercato per uccisione di massa.

Il 27 febbraio il presidente ucraino annuncia di essere stato deposto da forze neofasciste. Lo scontro assume un connotato sempre più ideologico. Dopo una breve parentesi di un presidente ad interim il potere si sposta nelle mani di uno degli uomini più ricchi del paese, Petro Poroshenko considerato filo occidentale da Vladimir Putin.

Nel gennaio del 2019 l’ex presidente Yanukovich, che si trova in esilio a Rostov in Russia, è stato condannato dal tribunale di Kiev a una pena di 13 anni per tradimento della patria.

La Crimea e il Donbass

Marco Alpozzi / LaPresse

Nel marzo del 2014, a poche settimane di distanza dai fatti del 20 febbraio, il parlamento della Repubblica autonoma della Crimea, penisola che si affaccia sul Mar Nero e che gode di una propria costituzione anche se è un territorio controllato dal governo ucraino, indice un referendum per l’annessione alla Russia.

Dopo la vittoria del «sì» con circa il 95 per cento dei voti favorevoli, i parlamentari proclamano l’indipendenza dall’Ucraina e chiedono a Vladimir Putin di iniziare la procedura per l’annessione alla Federazione Russa. Negli anni, la penisola è passata di mano tra impero zarista, Unione Sovietica e Ucraina. Non è un caso se la maggioranza della popolazione della penisola, circa il 60-70 per cento, è russofona.

La Crimea è sempre stata strategica per la Russia. Nel porto della città di Sebastopoli staziona gran parte della flotta militare di Mosca mentre nella città di Yalta si tenne lo storico incontro tra Churchill, Roosevelt e Stalin in cui venne deciso il nuovo assetto europeo e internazionale dopo la Seconda guerra mondiale.

Dopo l’esito positivo del referendum l’Ucraina, così come la comunità internazionale (Onu, Ue, Osce), non ha mai riconosciuto la legittimità del voto e gli scontri con i separatisti prendono una piega più violenta. Il Donbass, regione orientale dell’Ucraina con forte presenza di popolazione russofona, diventa l’epicentro dei disordini.

Gli eventi si susseguono con una velocità inusuale: il 7 aprile 2014 viene autoproclamata la Repubblica popolare di Donetsk, mentre a fine mese è il turno dell’autoproclamata Repubblica popolare di Lugansk.

La strage di Odessa

La situazione nel paese è tesa e il rischio di una guerra civile diffusa si palesa all’Europa il 2 maggio a Odessa, una cittadina nel sud-ovest dell’Ucraina, dove un gruppo di manifestanti filo russi si sono rifugiati nel palazzo dei sindacati per trovare riparo da una folla di neofascisti e ultras armati con mazze e bastoni.

Il palazzo venne dato alle fiamme con molotov e altro materiale incendiario: muoiono 48 civili. La situazione è degenerata anche nel Donbass dove la popolazione è assediata dall’esercito e i civili faticano ad avere accesso anche ai medicinali. Da Mosca il presidente russo, Vladimir Putin, denuncia violazioni di diritti umani avvenute in Ucraina dal novembre 2013 per mano degli «ultranazionalisti» che controllano il governo di Kiev.

Il referendum nel Donbass

Marco Alpozzi / LaPresse

Si arriva così a metà maggio. Nel Donbass i separatisti indicono un referendum proponendo il quesito: «Sostieni lo stato autoproclamato della Repubblica Popolare di Donetsk/Repubblica Popolare di Luhansk?». Si concluderà con un plebiscito in favore del “sì”, ma sul posto non erano presenti osservatori internazionali per decretare l’autenticità dei dati pubblicati.

I leader europei accusano Mosca di aver fomentato la situazione, mentre la Russia minaccia una crisi in caso di intervento militare ucraino. Mariupol, Kramators’k, Horlivka, sono le altre città in cui i separatisti occupano gli uffici istituzionali ucraini. Città in cui negli ultimi sette anni il potere è passato più volte di mano tra separatisti e forze governative. Lo scontro vede impegnati anche diversi combattenti volontari, contractor militari e “foreign fighters” di stampo neofascista e di estrema sinistra provenienti da tutta Europa.

La battaglia dell’aeroporto e l’abbattimento dell’aereo militare ucraino

Non siamo neanche a giugno che il conflitto civile sembra aver preso una direzione quasi irreversibile dovuto all’inaspettata resistenza e organizzazione dei separatisti. Mosca, infatti, è accusata di finanziare ed equipaggiare con armi militari i vari battaglioni filo russi, ma dal Cremlino negano categoricamente ogni coinvolgimento diretto nel Donbass.

Il 26 maggio gli insorti filo russi riescono a occupare uno dei terminal dell’aeroporto di Donetsk e chiedono il ritiro delle forze governative. Kiev non accetta il ricatto e avvia un’altra offensiva. Muoiono circa una quarantina di separatisti ma ci sono anche vittime tra i civili. Qualche giorno più tardi gli insorti abbattono un aereo militare che volava sopra Lugansk. Il bilancio di quell’attacco recita nessun superstite. Muoiono 49 militari ucraini. La condanna internazionale è unanime e il presidente Poroshenko promette al suo popolo una vendetta senza precedenti.

Il gas di mezzo

Ma quello che gli analisti oramai definiscono un conflitto civile diventa anche uno scontro energetico. Il 16 giugno del 2014 la società russa Gazprom, la più importante azienda energetica del paese parzialmente controllata da Mosca, decide di ridurre la quantità di gas che giunge in Ucraina. L’azienda pretende il pagamento di alcuni arretrati, si parla di circa 1,5 miliardi di euro. Somma che viene poi saldata nel novembre del 2014.

Attraverso il territorio ucraino la Russia trasporta il gas anche nel resto d’Europa. Gli oleodotti diventano una pedina importante nell’economia del conflitto. Non è un caso se nel settembre 2021, dopo aver concluso un accordo con la Polonia, Putin ha firmato anche una nuova intesa con l’Ungheria per trasportare la sua energia in Europa, riuscendo così a bypassare l’Ucraina. E in questo, l’entrata in efficienza del gasdotto Nord Stream 2, attualmente sospeso, che dalla Russia arriva direttamente in Germania, sarebbe il punto di svolta per Vladimir Putin.

La costruzione del gasdotto è completa e ora si attendono le prossime decisione del neo cancelliere tedesco Olaf Scholz sulla questione. Difficilmente la Germania rinuncerà a un progetto dal valore complessivo di 11 miliardi di euro.

L’abbattimento del volo civile MH17

Copyright 2021 The Associated Press. All rights reserved

Nonostante il conflitto sia via terra, nei cieli ucraini viene abbattuto il volo Mh17 della Malaysia Airlines partito da Amsterdam e diretto a Kuala Lumpur. Secondo un team internazionale di investigatori, guidato dai Paesi Bassi, stato in cui è in corso un processo, nel maggio del 2018 l’aereo è stato colpito da un missile Buk della 53a brigata antiaerea russa con sede a Kursk.

Al momento sono quattro gli imputati raggiunti dai mandati di cattura internazionali. Si tratta dell’ucraino separatista Leonid Karchenko e di tre russi: Sergueï Doubinski, Igor Girkine e Oleg Poulatov. Vladimir Putin ha sempre negato le accuse imputando le colpe alle forze armate ucraine.

La ripresa dell’offensiva e i negoziati

Marco Alpozzi / LaPresse

A Donetsk e Lugansk continuano i bombardamenti dell’esercito ucraino per tutta l’estate. Si combatte lungo quasi tutto il confine russo del Donbass, con i separatisti che rifiutano ogni ultimatum e sollecitano anche un intervento russo.

Nel frattempo a Minsk (Bielorussia) si tengono i primi colloqui tra i separatisti, i funzionari russi, quelli ucraini e l’Osce che fa da supervisore. Ma i primi incontri sono inconcludenti.

Un jet da combattimento Mig-29 dell'aeronautica ucraina venne abbattuto dagli insorti a Lugansk il 17 agosto del 2014. Nella controffensiva ucraina muoiono anche cittadini civili.

Il 5 settembre a Minsk le parti giungono a un accordo che prevede: uno scambio di prigionieri, la rimozione dal fronte delle armi pesanti, la tregua e il mantenimento dei corridoi umanitari per far evacuare i civili. Il presidente ucraino Poroshenko decide di concedere maggiore autonomia a Donetsk e Lugansk e promette di tutelare con la legge la lingua russa nella regione, ma i leader separatisti continuano sulla strada dell’indipendenza.

Stato attuale

Nonostante gli accordi raggiunti a Minsk nel 2015 e diverse tregue il conflitto non si è mai concluso in maniera definitiva. Negli anni è continuato a fasi alterne con la conta delle vittime e dei feriti che aumenta a seconda dei periodi dell’anno. In totale sono circa 14mila i morti tra civili e personale militare, mentre sono quasi 1,8 milioni gli sfollati interni. 

Dopo le tensioni degli ultimi giorni alla fine, il temuto attacco russo è iniziato. Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky ha parlato di attacchi missilistici russi lanciati contro le principali città del paese e contro i posti di confine con la Russia e ha invitato i suoi cittadini alla calma. «Vinceremo perché siamo l’Ucraina. Viva l’Ucraina».

© Riproduzione riservata