Vera Zhou, Qelbinur, Erbaqyt, Gulzira. Questi sono solo alcuni dei nomi e delle storie in cui è possibile imbattersi se si legge il recente libro di Darren Byler, dal titolo sicuramente evocativo, In the camps. China’s high-tech penal colony (Columbia Global Reports, 2021).

Nel libro di Byler si esplorano le frontiere delle nuove forme di discriminazione e repressione hi-tech che si sperimentano in Cina, nella regione autonoma dello Xinjiang, ai danni delle minoranze etniche e religiose.

L’esperimento di discriminazione hi-tech del partito comunista cinese è un vaso di pandora dal quale fuoriescono alcuni dei principali fantasmi che vagano nel discorso politico globale: il capitalismo di stato della sorveglianza; la repressione e la violazione dei diritti in nome di un concetto di sicurezza cangiante che solo chi è al potere può estendere e definire di volta in volta; i rapporti tra Cina e resto del mondo sulle fondamentali questioni dei diritti e della dignità della persona.

Quello relativo alla situazione cinese non è un dibattito che resterà confinato nel recinto degli interessi degli esperti di settore, è invece sicuramente un punto di svolta nella comprensione delle dinamiche globali dell’autoritarismo che dovrà essere oggetto di approfondimento.

Questo perché la Cina è probabilmente il paese in cui è a livello più avanzato l’orribile matrimonio tra società della sorveglianza e profanazione dello spirito e della lettera delle norme che tutelano i diritti civili.

Governi, tribunali e parlamenti

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Numerosi parlamenti hanno già denunciato lo stato delle cose accusando il regime di Pechino di genocidio nei confronti della minoranza musulmana degli uiguri. Non è il caso del parlamento italiano, che si è invece rifugiato dietro una pilatesca risoluzione della commissione Affari esteri della Camera.

L’altro ieri è toccato all’Assemblée nationale francese esprimersi a tal proposito con una risoluzione, adottata quasi all’unanimità, con cui si denuncia il genocidio degli uiguri da parte della Cina e si chiede al governo francese di fare lo stesso.

Da parte sua, la Cina ha risposto con la solita litania che ormai ben conosciamo esprimendo «ferma opposizione» alle accuse contenute nella risoluzione votata dall’Assemblée nationale.

Secondo il portavoce del ministro degli Esteri cinese: «La risoluzione sullo Xinjiang ignora i fatti e gli aspetti legali e si intromette pesantemente nelle vicende interne della Cina». Magari non dovremmo nemmeno intrometterci e voltarci dall’altra parte.

A dicembre era toccato al tribunale di Londra, istituito per volontà del World Uyghur Congress, un’organizzazione non governativa che si batte per i diritti degli uiguri nel mondo, dichiarare che «la Repubblica popolare cinese ha commesso genocidio, crimini contro l’umanità e tortura».

Nelle conclusioni di sir Geoffrey Nice si evidenziava anche come «il presidente Xi Jinping, Chen Quanguo (il capo del Partito nello Xinjiang ndr) e altri alti funzionari della Repubblica e del Partito comunista cinese abbiano la responsabilità primaria per gli atti che si sono verificati nello Xinjiang».

Le mosse americane

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Gli Stati Uniti negli ultimi mesi hanno approvato due leggi relative alla situazione dello Xinjiang ed è questo uno dei pochi temi su cui, nonostante lo stato di polarizzazione permanente della politica statunitense, si registra un consenso sostanzialmente unanime fra gli schieramenti politici.

Lo scorso 13 gennaio Jeffrey Merkley (senatore progressista dell’Oregon) e James McGovern (progressista e membro della Camera dei rappresentanti per il Massachusetts), co-presidenti della commissione del Congresso sulla Cina, hanno presa carta e penna e hanno scritto all’Alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani Michelle Bachelet.

I due politici statunitensi richiedono la pubblicazione immediata del rapporto sulle violazioni dei diritti umani a cui le Nazioni unite stanno ormai lavorando da mesi, tanto da annunciarne la pubblicazione imminente già a settembre 2021.

Dov’è finito il rapporto? Questo si chiedono i due politici statunitensi. Ce lo chiediamo anche noi. A questo si aggiungono le critiche all’inattività del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite che non ha preso alcuna misura nonostante cinquanta esperti indipendenti, oltre un anno e mezzo fa, avessero già segnalato la gravità della situazione cinese.

È questo forse solo l’ultimo capitolo relativo alla crisi di un’istituzione che sembra ormai servire gli interessi di stati che hanno valori e perpetuano politiche esplicitamente contrarie al suo mandato. Parallelamente a questa inattività sono continuate ad aumentare le prove relative a programmi di sterilizzazione di massa e lavoro forzato ai danni degli uiguri e di altre minoranze nello Xinjiang.

L’esperimento distopico del Partito comunista cinese continua così senza sosta: aumentano i controlli sulle minoranze religiose ed etniche e si costruiscono nuovi campi di “rieducazione politica”.

Come documenta Byler nel suo libro, il ministero per gli Affari civili è riuscito ad abbassare il tasso di nascita nello Xinjang con punte dell’80 per cento in alcune cittadine. La politica di abbattimento sulle «nascite illegali» mira infatti ad abbattere la stessa possibilità di riproduzione della minoranza uigura.

Byler nota come da quando aveva iniziato a lavorare al suo libro (2010), fino al suo ultimo viaggio in Cina, quaranta tra i suoi amici e conoscenti siano ormai scomparsi e di loro si sia persa ogni traccia. Discriminazione hi-tech e strutturazione di reparti di polizia pre-crimine sono i marchi di fabbrica del modello di società che il partito comunista cinese porta avanti nel suo esperimento distopico nello Xinjang.

La corsa senza freni verso la volontà totalitaria di controllo e manipolazione non si arresta però ai confini cinesi. Sono sempre maggiori i riscontri di esportazione di tecnologia e strumenti di controllo verso paesi africani e regimi autoritari che si affidano alle forniture cinesi.

A inizio gennaio un’inchiesta del Washington Post aveva già rivelato la probabile esistenza di un sistema di sorveglianza digitale utilizzato per raccogliere e catalogare informazioni su politici, studiosi e giornalisti colpevoli di criticare le politiche del regime di Pechino.

Queste informazioni sarebbero poi trasferite alle agenzie governative, alla polizia e all’esercito per fini di schedatura di persone ritenute «anti cinesi». Inutile dire che si tratta di una lista in cui ogni persona perbene avrebbe aspirazione a entrare. Non per sentimenti anti cinesi, ma per profondo amore della libertà dei suoi cittadini e di quelli del resto del mondo. 
 

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