Ancora una volta, riemerge all’attenzione dei media americani l’amore e l’apprezzamento di Donald Trump per i leader autoritari. In particolare, l’ammirazione per Adolf Hitler. Non è una novità, i retroscena circolano da anni, contenuti nel libro The Divider: Trump in the White House 2017-2021, scritto dai giornalisti Peter Baker e Susan Glasser e uscito nel luglio 2022, ma anche in un altro volume, scritto dall’analista della Cnn Jim Sciutto e intitolato The Rise of Great Powers, si parla delle considerazioni private fatte dal tycoon sul dittatore nazista e le “cose buone che ha fatto”, come ricostruire l’economia tedesca.

La fonte di questi retroscena era il capo di gabinetto del presidente nel biennio 2017-19, il generale John Kelly. Adesso lo stesso Kelly ha confermato tutto direttamente in una serie di audiointerviste pubblicate su New York Times e Cnn. Non solo ha aggiunto che è praticamente sicuro che Trump governerebbe da dittatore, ma anche che il suo modo pensare lo qualifica a essere definito come fascista.

Infine, non capisce né la storia americana né la costituzione. Il generale, che ha affermato che le forze armate americane sono fedeli «prima di tutto alla Costituzione, senza retropensieri», ha ricordato, confermandolo a voce, il suo scambio con l’allora presidente riguardo i «generali tedeschi» che Trump avrebbe voluto anche negli Stati Uniti come «modello di fedeltà».

Kelly all’epoca aveva ricordato che in ben tre casi gli stessi ufficiali della Wehrmacht avevano tentato di uccidere il Fuhrer e l’ultima volta ci erano quasi riusciti, facendo un chiaro riferimento all’attentato del 20 luglio 1944. Il presidente però non ci credeva e diceva che invece erano «totalmente fedeli».

In quel caso però un modello di fedeltà più aderente ai desiderata trumpiani sarebbe stato quello che intercorreva tra Iosif Stalin e i vertici militari sovietici durante la Seconda Guerra Mondiale, anche se per un repubblicano, ancorché eterodosso come Trump, paragonarsi a un comunista è ancora tabù.

Per quanto la campagna di Trump per bocca del suo portavoce Steven Cheung si sia affrettata a smentire definendo Kelly «un uomo che si è reso ridicolo con l’invenzione di queste storie prive di fondamento», ormai le testimonianze sul pensiero del tycoon su Hitler sono numerose e alcune di vecchia data. Nel 1990, durante il divorzio dalla prima moglie Ivana, aveva ammesso in tribunale di possedere una copia del Mein Kampf ed era stato accusato di leggere una serie di discorsi del leader nazista intitolata Il nuovo ordine.

Non è certo un mistero poi che Trump apprezzi anche altri leader autoritari, primo tra tutti il premier ungherese Viktor Orbán, da lui molto stimato e citato anche in occasione dell’unico dibattito con la vicepresidente Kamala Harris. Sono note anche la sua ammirazione per Vladimir Putin e persino per il presidente cinese Xi Jinping e per il dittatore nordcoreano Kim Jong-Un, dei quali apprezzava soprattutto la deferenza che erano riusciti a ottenere dai loro sottoposti. Non solo: anche le parate militari erano qualcosa di molto gradito e durante una visita in Francia durante i festeggiamenti del 14 luglio aveva espresso il suo desiderio di vederne «una simile».

Sicuramente il paragone con Hitler fa molto gioco ai democratici nell’ambito della campagna, ma di certo Trump non è pronto a instaurare un regime totalitario di quel tipo.

Il timore autoritario

Piuttosto, l’autoritarismo di Trump ha radici profonde nella storia americana, risalenti addirittura alle origini, ai timori dei Padri Fondatori su un possibile leader demagogico che avrebbe potuto rovesciare la conquista della libertà ottenuta dalle Tredici Colonie contro la Madrepatria britannica.

Un lungo saggio pubblicato sul numero di ottobre dalla rivista Atlantic evidenzia proprio questo e il primo presidente George Washington esemplificava questi timori, specie quando uno dei suoi uomini, nel 1783, gli aveva chiesto di prendere il comando delle truppe e di deporre il Congresso. Ipotesi nettamente rifiutata dal futuro primo presidente.

L’immagine però dell’aspirante dittatore, del potenziale Cromwell americano è rimasta. Ci sono stati, anche prima di Trump, presidenti con aspirazioni autoritarie, sin dall’immediato successore di George Washington, il suo vice John Adams, che aveva fatto approvare una legge che impediva di criticare il governo federale sulla stampa. Senza andare troppo distanti, anche Richard Nixon vedeva i giornali e le università come «il nemico da battere». Però tutti si erano fermati di fronte a uno dei rituali sacri della democrazia americana: il passaggio dei poteri. Adams aveva lasciato la carica all’avversario Thomas Jefferson nel 1801 dopo una campagna elettorale piena di insulti personali, mentre Nixon si è dimesso dopo che lo scandalo del Watergate aveva evidenziato le numerose menzogne del presidente sull’irruzione notturna di alcuni agenti dell’Fbi nel quartier generale democratico durante la campagna del 1972. Donald Trump invece ha cercato in tutti i modi di delegittimare il suo successore ne gennaio 2021 e promette di farlo anche dopo il 5 novembre, in caso di sconfitta.

Uno scenario che preoccupa l’attuale inquilino della Casa Bianca, lui sì seguace di Washington quando, cedendo alle pressioni del suo partito, ha rinunciato alla rielezione dato il deteriorarsi delle sue condizioni psicofisiche. Trump interrompe questa tradizione e quello che verrà dopo ancora non si sa a cosa possa assomigliare.

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